sabato 17 dicembre 2011

Iraq, inizia il ritiro americano. E ora che cosa succederà?



http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=42628 

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 16/12/2011, a pag. 18, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Obama ammaina la bandiera. La guerra in Iraq è finita ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 21, l'intervista di Alessandra Farkas a Daniel Pipes dal titolo " Puntavamo a un altro 1945. Ma abbiamo fallito nel nostro obiettivo morale" .
Ecco i due articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama ammaina la bandiera. La guerra in Iraq è finita "

Maurizio Molinari  soldati Usa mentre ammainano la bandiera


La bandiera americana è stata ammainata a Baghdad ponendo termine all’intervento iniziato il 20 marzo del 2003 che ha portato alla rimozione del regime di Saddam Hussein. La cerimonia, in una zona protetta a ridosso dell’aeroporto di Baghdad, è avvenuta alla presenza del capo del Pentagono Leon Panetta e del capo degli Stati Maggiori Congiunti, Martin Dempsey, ma senza autorità irachene. Si chiude così un conflitto durato quasi 9 anni, costato 4487 morti e 32 mila feriti agli americani e che ha causato oltre centomila vittime irachene. «Non è stato un sacrificio invano - ha detto Panetta - perché ha consentito all’Iraq di mettere da parte la tirannia, offrendo speranze di pace e prosperità alle future generazioni».

La cerimonia di Baghdad segue la visita a Washington del premier iracheno Nouri al Maliki e il Pentagono sottolinea il momento affermando che «la bandiera ammainata non sventolerà più in Iraq perché da oggi la missione è finita». George W. Bush lanciò l’attacco per rimuovere il regime di Saddam centrando l’obiettivo nell’aprile 2003 ma la scelta di intervenire con la motivazione della presenza di armi di distruzione di massa spaccò la nazione perché tali ordigni non sono stati trovati. Barack Obama, contrario all’intervento dal 2002, ha scelto di «consegnare alla storia il giudizio sull’inizio del conflitto» per mettere l’accento sull’omaggio agli oltre 1,5 milioni di soldati che «hanno servito rendendo onore alla nazione». In Iraq restano 4000 soldati Usa, rientreranno entro fine mese ma Obama ha ordinato di posizionarne altrettanti in Kuwait, in caso di emergenze. I timori dei comandi Usa riguardano la capacità degli iracheni di mantenere la sicurezza interna come anche di evitare le infiltrazioni iraniane.

CORRIERE della SERA - Alessandra Farkas : " Puntavamo a un altro 1945. Ma abbiamo fallito nel nostro obiettivo morale "

 

Alessandra Farkas, Daniel Pipes

«La presenza americana in Iraq finisce, ma non certo la guerra». È pessimista Daniel Pipes, lo studioso neocon già consigliere di George W. Bush, considerato uno dei massimi esperti americani di Medio Oriente. «Abbiamo sprecato 800 miliardi di dollari, perso oltre 4 mila soldati rimpatriandone altri 30 mila feriti — spiega Pipes — ma tra dieci, forse cinque anni, tutti i nostri sacrifici saranno stati cancellati e l'Iraq sarà sotto la morsa di un'altra tirannia».

L'America ha insomma perso questa guerra?

«Ha perso la guerra, anche se ha vinto qualche battaglia: ha messo fine alla cruenta dittatura di Saddam Hussein, aiutato il governo curdo nel Nord e spezzato la dominazione sunnita del Paese. Ma il vero obiettivo non l'ha raggiunto».

A quale obiettivo si riferisce?

«L'obiettivo 1945. L'amministrazione Bush, di cui ho fatto parte, aveva un progetto moralmente molto elevato per creare un Iraq libero e prospero, basato implicitamente sull'esperienza Usa in Austria, Germania, Italia e Giappone nel 1945. Invece di chiedere risarcimenti ai nemici sconfitti, l'America allora accordò loro prestiti, aiutandoli nella ricostruzione dei Paesi distrutti».

Il metodo in Iraq non ha funzionato?

«Purtroppo ci siamo resi conto ben presto che il 1945 non poteva essere replicato in Medio Oriente nel 2003. È stato un enorme errore di valutazione, e una sconfitta, dover ammettere che il nobile intento di trasformare l'Iraq in un faro del Medio Oriente è fallito».

L'amministrazione Obama doveva restare?

«È stato l'allora presidente Bush, 4 anni fa, a firmare contro i miei consigli l'attuale ritiro. Una data arbitraria che non tiene conto della situazione sul terreno. Lo dico da repubblicano convinto».

Se si potesse tornare indietro cosa cambierebbe?

«Chiederei all'America di appoggiare un governo militare retto da un generale iracheno, guidandolo gradualmente verso la democrazia. Chiederei elezioni non dopo 23 mesi, ma 23 anni perché, come bene insegna la Cina, ci vuole tempo a passare da una cruenta dittatura alla democrazia. Avremmo dovuto inviare le truppe ai confini e in zone strategiche, non a pattugliare le strade di Falluja. Ci siamo solo fatti odiare. Ma ormai è troppo tardi per recriminare».

Pensa che l'attuale ritiro aiuterà il presidente Obama a essere rieletto?

«Al contrario, penso che due pericoli possano compromettere la sua rielezione: lo scoppio di una guerra civile in Iraq e un incremento dell'influenza iraniana nel Paese. Francamente sono sorpreso che Obama abbia deciso di rispettare la scadenza invece di proteggersi e rimandare il ritiro di almeno un anno. Se qualcosa andrà storto, i repubblicani potranno addossargli tutta la colpa».
mercoledì 14 dicembre 2011

Growing Global Anti-Semitism & De-Legitimization of Israel Coming from the Mainstream

http://www.wiesenthal.com/atf/cf/%7B54d385e6-f1b9-4e9f-8e94-890c3e6dd277%7D/TOP-TEN-SLURS_2011-FINAL.PDF

List includes world leaders, politicians, religious leaders, a musician, film director, fashion designer and more...

 This list reflects mainstream voices – not the lunatic fringe, terrorist groups, or Iran’s government – showing that anti-Semitism and de-legitimization of Israel have gone mainstream.
We need you to partner with us by:
1. Donating to Friends of the Simon Wiesenthal Center for Holocaust Studies – your much-needed support will enable us to remain on the frontlines against the haters who target Israel and vilify Jews
2. Pass this to friends and family – spreading the word will go a long way in the fight against anti-Semitism and the de-legitimization of Israel
And, be part of our team exposing anti-Israel and/or anti-Jewish slurs in 2012 by forwarding incidents to the Center so that the perpetrators can be exposed and held accountable in the court of public opinion.
lunedì 12 dicembre 2011

Gingrich: I palestinesi ? Un popolo inventato

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=42566 

Su Newt Gingrich, abbiamo pubblicato ieri il commento di Piera Prister http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=42556 che esprime le nostre valutazioni sul candidato repubblicano alla nomination.
Sulla STAMPA di oggi, 11/12/2011, a pag.18, con il titolo "Gingrich: I palestinesi ? Un popolo inventato" Maurizio Molinari descrive con accuratezza l'intervista di Gingrich durante la quale si è espresso sul conflitto israelo-palestinese con una affermazione che ha destato scandalo.
 

Diciamolo con franchezza, se questa frase l'avesse pronunciata qualcun altro, sarebbe molto probabilmente passata inosservata. Il fatto che l'abbia detta uno come Gingrich ha sollevato un vespaio. E' la solita storia del doppio standard, lo stesso concetto assume significato opposto a seconda di chi lo esprime. 

Gingrich è 'per definizione' il 'cattivo', dicesse anche buona sera verrebbe criticato ugualmente. A noi non sembra il candidato ideale per sconfiggere Obama, anzi, ma cerchiamo di giudicarlo per ciò che dice e non per l'immagine volgare e grossolana che spesso dà di sè. Questa volta ha detto una verità sacrosanta, persino espressa in termini eleganti, come si evince dal pezzo di Molinari. Dovrebbe essere condivisa da chiunque conosca la storia del Medio Oriente.
 

Ecco l'articolo:

I palestinesi non esistono e il processo di pace in Medio Oriente è un’illusione»: il candidato repubblicano Newt Gingrich sceglie un’intervista con il «Jewish Channel» per esporre una posizione sul conflitto israelo-palestinese che fa sobbalzare i democratici e si attira accuse di «razzismo» da Ramallah. La tesi che Gingrich consegna al canale specializzato in temi d’interesse ebraico è la seguente: «Dobbiamo ricordarci che non è mai esistito uno Stato di Palestina perché all’origine la Palestina era parte dell’Impero Ottomano. Credo anche che i palestinesi siano stati inventati perché in effetti erano parte della grande comunità araba».

Una ricostruzione che va alle origini dell’immigrazione ebraica spinta dal sionismo, che alla fine dell’Ottocento si insediò nell’area compresa fra la Galilea e il Negev, dominata dai turchi e abitata anche da arabi. «I palestinesi hanno avuto la possibilità di andare in molti posti ma per ragioni politiche non l’hanno fatto, preferendo sostenere una guerra contro Israele iniziata dagli Anni 40. È davvero tragico», aggiunge l’ex presidente della Camera dei Rappresentanti, lodando il «tosto realismo» del premier israeliano Benjamin Netanyahu e criticando le «illusioni sul processo di pace» di un’Amministrazione Obama colpevole di ignorare che «l’Autorità palestinese e Hamas esprimono l’enorme desiderio di distruggere Israele».

Le prime reazioni arrivano dai democratici veterani del processo di pace. Martin Indyk, ex-ambasciatore in Israele spesso ascoltato dalla Casa Bianca, ribatte: «Se Gingrich vuole apparire filo-israeliano sta facendo un gravissimo errore perché oltre la metà degli israeliani, incluso Netanyahu, sono a favore della soluzione dei due Stati».

Carl Levin, senatore del Michigan molto vicino al presidente Obama, rincara la dose: «Si tratta di un cinico tentativo di attirare l’attenzione dell’elettorato con argomenti distruttivi e laceranti che non lo aiuteranno nella corsa alla Casa Bianca perché non offre soluzioni ma getta solo benzina per darle fuoco».

Da Ramallah parla Saeb Erakat, negoziatore palestinese, secondo il quale si tratta di «frasi razziste». Il primo ministro Salam Fayyad parla di «affermazioni volgari e ridicole», mentre Hanan Ashrawi, veterana dell’Olp, ricorda che «anche il premier israeliano Golda Meir nel 1969 disse qualcosa di simile e riproporre tali affermazioni dimostra l’atmosfera isterica nella quale si svolgono le elezioni americane». Replica il portavoce di Gingrich, R.C. Hammond: «Gingrich si riferiva al fatto che questo conflitto è frutto di decenni di storia. Noi sosteniamo una pace negoziata fra Israele e palestinesi che includerà necessariamente i confini di uno Stato palestinese, ma per comprendere meglio cosa viene proposto e negoziato dobbiamo conoscere una Storia lunga e complessa, ed è proprio questo che Gingrich tentava di fare nell’intervista televisiva».

L’affondo sui palestinesi conclude una settimana durante la quale Gingrich ha promesso che se sarà eletto trasferirà l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e nominerà Segretario di Stato John Bolton, che fu ambasciatore all’Onu durante l’Amministrazione Bush. Una strategia per raccogliere i favori degli evangelici, da sempre vicini a Israele, che sono una parte importante della base repubblicana che voterà alle primarie in Iowa del 3 gennaio.
domenica 11 dicembre 2011

Così Israele liquida i terroristi



http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=8&sez=120&id=42555 

Sul FOGLIO di oggi, 10/12/2011, a pag.1, l'analisi molto accurata a cura della redazione, sulla ripresa del targeting killing contro i terroristi, 'sakum' in ebraico. Il titolo è: " Così Israele 'liquida' i terroristi ", con le virgolette alla parola 'liquida'. Non le discutiamo, ci stanno anche bene, ma IC prerisce toglierle, avendo scelto di riprendere tale e quale l'ottima titolazione. Ottima, ma senza le virgolette, come non le useremmo scrivendo legittima difesa.
Ecco il pezzo (complimenti all'autore):





Roma. L’uccisione di Assam Batash è “il ‘targeted killing’ di maggior profilo da molti anni”. Così scrive sul quotidiano Yedioth Ahronoth il veterano del giornalismo militare israeliano, Ron Ben Yishai, commentando l’operazione dell’esercito di Gerusalemme nella Striscia di Gaza. Terroristi hanno risposto lanciando missili sulle città del sud. Batash era uno dei leader storici delle Brigate dei martiri di al Aqsa, il braccio armato di Fatah, che ha congelato le attività in Cisgiordania pur rimanendo attiva a Gaza. Secondo l’intelligence israeliana, Batash voleva realizzare un grande attentato contro civili israeliani, come quello che ha portato a termine nel 2007. Israele ha riesumato uno strumento della lotta al terrorismo, le uccisioni mirate, che tanto scandalo ha generato all’epoca dell’uccisione del capo di Hamas, Ahmed Yassin. Negli Stati Uniti è uscito qualche mese fa un libro di Daniel Byman, “A High Price”; racconta la storia dell’antiterrorismo israeliano – delle sue vittorie e dei suoi fallimenti – dedicando un capitolo corposo ai targeted killing, (“sakum” in ebraico).

Nel libro si identifica Mahmoud al Mabhouh, leader di Hamas legato all’Iran e ucciso nel 2010 a Dubai, come una delle ultime vittime di queste operazioni. Fra le rivelazioni di Byman c’è il ruolo che Daniel Reisner, il giurista israeliano che ha fornito le basi legali delle esecuzioni, avrebbe avuto nell’ispirare l’Amministrazione Obama contro Osama bin Laden e Anwar al Awlaki. Il libro parla delle conseguenze legali di queste “esecuzioni extragiudiziali”.

Avi Dichter, ex capo dell’intelligence, ha dovuto cancellare le visite nel Regno Unito per timore di essere arrestato per “crimini di guerra”. In Spagna, alcuni magistrati hanno aperto inchieste contro gli israeliani e una simile minaccia pende anche alla Corte dell’Aja. Il libro spiega che l’attuale leadership israeliana ha forgiato le uccisioni mirate. Si calcola che a oggi Israele abbia realizzato 234 targeted killing. “Queste uccisioni funzionano”, scrive Byman nel libro. “Hanno costretto i leader sopravvissuti a vivere nascondendosi”. Neè un esempio il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che vive in un bunker in Libano e che è riapparso pochi giorni fa dopo due anni di clandestinità.

Durante l’intifada Yaalon, allora capo di stato maggiore, andava in giro con il “taccuino”. Conteneva da 300 a 1.000 nomi di terroristi da eliminare, segnati con colori diversi a seconda della pericolosità: rosso, nero e verde. Ogni terrorista eliminato veniva cancellato da Yaalon con una “X”. Il libro racconta i modi usati per eliminare i terroristi, compreso un modellino della moschea di al Aqsa a Gerusalemme imbottita di esplosivo. “E’ un dilemma”, ha detto il generale Amos Yadlin. “Un terrorista sta per uccidere venti persone in un ristorante. Se facciamo saltare in aria la sua macchina, tre innocenti moriranno. Come lo giustifichiamo?”.

Qui è intervenuto Reisner con le condizioni per le uccisioni: che l’arresto sia impraticabile, che gli obiettivi siano combattenti, che il governo approvi l’operazione e che ci siano poche vittime civili. Gli obiettivi sono noti come “bombe a orologeria”. Ehud Barak, attuale ministro della Difesa, nel 1973 a Beirut uccise di suo pugno tre terroristi che avevano preso parte alla strage di Monaco nel ’72. Barak ha anche diretto le unità “Cherry” e “Samson”: soldati travestiti da arabi che si infiltrano per uccidere terroristi. Nel libro parla Rami Gershon, fondatore di una di queste unità, la Dudevan: “Il nostro lavoro è liquidare. Se non liquido, un bus esploderà e allora diciassette bambini saranno liquidati”. Nel libro si spiega che Israele ha annullato metà delle operazioni per il rischio di un alto numero di vittime civili.

Una volta c’era la possibilità di eliminare in un colpo il “dream team”: Ismail Haniyeh, Mohammed Deif e Yassin. Ma visto l’alto numero di bambini presenti sulla scena, l’esercito lasciò perdere. Si è fissato a 3,14 il numero “accettabile” di vittime civili per ogni terrorista. Giovedì, a Gaza, l’esercito ne ha lasciata a terra soltanto una. Un bilancio tutto sommato positivo per i duri standard dell’antiterrorismo israeliano.
venerdì 9 dicembre 2011

Doppio standard, la regola che il mondo dell'informazione applica sempre a Israele



http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=42544 

Riportiamo da PAGINE EBRAICHE l'articolo di Ugo Volli dal titolo " Doppio standard, la regola che il mondo dell'informazione applica sempre a Israele ".

Ugo Volli, Natan Sharansky


Nel momento in cui Israele è particolarmente isolato e sotto attacco non bisogna mai dimenticarsi del semplice test proposto da Natan Sharanski per distinguere le legittime critiche politiche dall'antisemitismo (http://www.jcpa.org/phas/phas-sharansky-f04.htm): sono le tre "D" di delegittimazione, demonizzazione, doppio standard.

Essendo scontato che la totalità delle invettive contro Israele che vengono dal mondo arabo (in quel caso spesso rivolte direttamente contro "gli ebrei") e dalla sinistra radicale non superano affatto questo test, è interessante guardare i casi ambigui, che sono numerosi.
Dei tre criteri, il più sensibile è quello del "doppio standard", che viene spesso applicato sia in senso negativo a Israele sia in quello positivo ai palestinesi e talvolta in maniera del tutto esplicita, come "appoggio ai più deboli". Ma che cosa si intende per "doppio standard"? Il Cambridge dictionary online lo definisce come "una regola o canone di buon comportamento che si richiede ingiustamente che alcune persone seguano e altre no".

E' un caso praticamente universale nelle polemiche contro Israele. Quando si polemizza aspramente sulle leggi israeliane contro il boicottaggio o contro il sostegno di governi stranieri a Ong, e non lo si fa con leggi analoghe degli Stati Uniti; quando si parla di Israele come "apartheid" e si ignorano le pulizie etniche arabe contro gli ebrei; quando si valuta con indulgenza il lancio di razzi su civili o gli attentati suicidi e si condanna l'autodifesa israeliana; quando si richiede che Israele blocchi le costruzioni nelle zone contese e non i palestinesi, ecc. ecc. Quasi tutta l'informazione applica doppi standard contro Israele. E purtroppo lo fa anche buona parte del mondo ebraico.

Quando il boicottaggio di Israele è una zappa sui piedi


Israele è una zappa sui piedidi Giovanni Quer


Giovanni Quer


Il 1 dicembre Israele ha presentato alla seconda commissione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite la proposta di risoluzione "Tecnologie Agricole per lo Sviluppo". La proposta propone il rafforzamento della ricerca in campo agricolo, l'aumento dell'accessibilita' alle tecnologie agricole, lo sviluppo rurale dei Paesi poveri con particolare attenzione allo status delle donne nella forza lavoro del settore agricolo e l'investimento dei Paesi ricchi nel campo dell'innovazione.

Israele e' stata il capofila, appoggiata da altro 102 stati, di questa risoluzione che si propone di adottare principi e di stabilire un'agenda nella politica agricola per lo sviluppo.

Il voto del 1 Dicembre 2011 ha ripetuto la stessa scena cui si e' assistito nel 2007, quando la Seconda Commissione dell'Assemblea Generale ha adottato una risoluzione (62/190) sulle tecnologie agricole, proposta d Israele e osteggiata dagli Stati Arabi, che avevano chiesto una votazione sul documento. La Tunisia aveva dichiarato che Israele non era interessata ne' allo sviluppo, ne' alla pace e che tantomeno era interessata al miglioramento delle condizioni agro-alimentari dei Paesi in via di sviluppo. La risoluzione era stata adottata con 118 voti a favore, incluso il Pakistan, e 29 astensioni (Paesi arabi e islamici) con nessun voto contrario.

Questo mese e' toccato all'Iraq il compito di osteggiare Israele, dichiarando che la proposta di risoluzione sfruttava la situazione economica dei Paesi poveri per coprire gli altri crimini commessi da Israele. Ancora la risoluzione e' andata al voto ed e' passata con 133 voti a favore e 35 astensioni. L'analisi dei voti da sempre gli stessi risultati: a favore hanno votato i Paesi occidentali, compresa Russia, stati sudamericani, la maggior parte degli stati africani e asiatici. I Paesi allineati nel boicottaggio contro Israele si sono astenuti: Paesi arabi e islamici, tranne gli stati dell'Asia Centrale e la Turchia, il Sud Africa e il suo satellite Swaziland, la Mauritania, l'Ecuador, il Nicaragua, il Venezuela, Cuba.

L'astensione anziche' il voto contrario ha un significato particolare: non potendo votare contro una risoluzione che e' apporta benefici alla popolazione dei Paesi allineati contro Israele, questi si astengono pur di non votare una proposta che migliora il mondo proprio perche' avanzata da Israele.

Il blocco arabo-islamico, seguito dagli stati che pervicacemente sostengono il BDS (Boycott, Divestment and Sanction), e' forte, compatto e capace di politicizzare anche questioni libere da ogni sfumatura identitaria. Tanto basta a dimostrare che l'ostracizzazione di Israele e' mossa dalla fondamentale volonta' di eliminare lo stato ebraico dalla comunita' delle nazioni, nonostante, e forse proprio a causa del suo impegno e apporto al mondo.

Quando si tratta di Israele i media fanno più propaganda che informazione




http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=269&sez=120&id=42537 

Riportiamo da PAGINE EBRAICHE l'articolo di Ugo Volli dal titolo " Quando si tratta di Israele i media fanno più propaganda che informazione ".

Ugo Volli


Un concetto chiave nella teoria delle comunicazioni di massa sul giornalismo è quello di notiziabilità, cioè dei criteri che trasformano i fatti in notizie. A monte del lavoro dei giornalisti, i fatti che accadono nel mondo reale sono numerosissimi, virtualmente infiniti. Ogni giorno nel mondo muoiono, per una ragione o per l'altra, letteralmente milioni di persone e decine di migliaia sono vittime di omicidi e incidenti (che potrebbero essere considerati abbastanza eccezionali da meritare l'attenzione dell'informazione). Ogni giorno si fanno accordi economici, si fondono e falliscono imprese, iniziano e si concludono lavori pubblici, si celebrano processi, si danno spettacoli ed eventi sportivi, si tengono elezioni, dibattiti parlamentari, manifestazioni, si combattono battaglie di guerre e guerriglie. Eccetera.

Anche se si guarda solo a un paese o a una città, gli eventi sono pressoché infiniti. E però un quotidiano medio contiene in tutto solo un paio di centinaia di notizie, un telegiornale o una pagina web di informazione un paio di decine. Il tutto viene per lo più da agenzie di stampa, che trasmettono nella migliore delle ipotesi un migliaio o due di notizie da tutto il mondo, su tutti gli argomenti. La diminuzione è drastica e segue più o meno una legge dell'informazione inversa: quanto più popolare è un mezzo di informazione, tanto minore il numero delle notizie comunicate.

Si può ben sostenere, dunque, che il giornalismo in generale, ancor più che come diffusione dell'informazione funziona come filtro; per questa ragione gli studiosi di comunicazioni di massa amano descrivere il lavoro del giornalismo come "gatekeeping", qualcosa come il portiere che permette o rifiuta l'accesso a certi edifici. E proprio questa azione di filtro, prima che trasmettere informazioni o determinare opinioni ha l'effetto potente dell'"agenda setting", cioè il potere di far sì che certe cose e non altre entrino fra gli oggetti di attenzione del pubblico. L'effetto è tanto più univoco quanto più le scelte giornalistiche su che cosa pubblicare sono coerenti, il che accade in maniera assai notevole di questi tempi. Se i giornali pubblicano più o meno le stesse notizie, sia pure con giudizi variati, la piccola fetta di mondo presentata al pubblico risulta assolutamente definita e con essa ciò che è importante per loro.

Questa premesse ci serve a porre quello che probabilmente è il primo problema rispetto all'informazione su Israele, il mondo ebraico, il Medio Oriente: quali sono i criteri di notiziabilità che i media impiegano per trasformare questa realtà complessa e multiforme in informazione? Si può partire dal considerare che esiste una notevole sproporzione informativa. Il Medio Oriente, anche inteso in senso allargato, è abitato da tre o quattrocento milioni di persone, ma riceve molta più attenzione dell'intera Africa, della Cina e dell'India messe assieme.

Questo effetto si accentua ancora moltissimo pensando a Israele. Fra "il fiume e il mare" vi sono una decina di milioni di persone, poco più dell'un per mille dell'umanità; la proporzione geografica è ancora minore; ma lo spazio dedicato alle vicende di questo angolo di mondo è assolutamente fuori misura e fra l'altro è assai globale, mentre di solito le informazioni politiche hanno un vincolo forte di notiziabilità locale. L'eccezione sono solo quegli eventi che hanno davvero un impatto generale, come quelli che riguardano le grandi potenze

Se consideriamo poi il contenuto di questo notiziario così eccessivo, vediamo che ciò che interessa ai media non è la cultura o la scienza o la società israeliana, le realizzazioni economiche o altro. La notiziabilità di Israele ha un tema solo, il conflitto con i palestinesi. E ancor di più: le pretese colpe di Israele nel conflitto con i palestinesi, le sue pretese violazioni dei diritti palestinesi o delle loro aspettative, le pretese debolezze israeliane. Correlativamente, hanno spazio le "iniziative di lotta" palestinesi, i riconoscimenti e gli appoggi ottenuti, pochissimo la vita reale dei palestinesi, la dinamica reale della loro vita politica.

Per fare un esempio, negli ultimi dodici mesi il nome della famiglia Fogel, barbaramente trucidata da due terroristi palestinesi ricorre 67 volte, gli indignados israeliani sono nominati in 90 articoli (tendopoli in 189). Dell'ex uomo forte di Gaza Dahlan e del durissimo conflitto che l'ha opposto al presidente palestinese Mahamud Abbas con accuse reciproche di cleptocrazia e tentatiuvo di colpo di stato, hanno parlato in tutto 25 articoli; del "simbolo" dei palestinesi condannati per terrorismo e detenuti nelle prigioni israeliane 87 volte; l'espressione "colonie" ricorre in 387 articoli ("nuovi insediamenti" in 216, costruzioni in 282).

Il premio Nobel per la chimica a uno scienziato israeliano si merita appena sei citazioni. Negli ultimi giorni si è parlato molto più dei "freedom riders", l'iniziativa inventata da qualche Ong e sostanzialmente rimasta sulla carta per far "invadere" ai palestinesi gli autobus diretti agli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria, protetti per evidenti ragioni di sicurezza, che della prossima sostituzione di Salam Fayyad (il "tecnico" formato negli Stati Uniti che governa da alcuni anni l'Autorità Palestinese), secondo una logica economica, senza essersi guadagnato i galloni col terrorismo: ne hanno parlato solo Il foglio e Il manifesto, naturalmente con sentimenti opposti. I giornali sostanzialmente non parlano del lancio di razzi e proiettili di mortaio da Gaza sul territorio israeliano, anche quando fa vittime e danni, mentre la reazione israeliana, quando arriva, viene puntualmente denunciata. E' degli scorsi giorni l'avvertenza severa della Francia, riportata da molti giornali, per cui Israele deve badare bene a non coinvolgere i civili mentre cerca di fermare i terroristi che mirano esattamente sui civili israeliani.

E' chiaro che questa concentrazione sul conflitto è un fatto molto negativo, che illustra malissimo le vere dinamiche mediorientali e rende un pessimo servigio a Israele e al popolo ebraico. D'altro canto, questa alta notiziabilità si unisce sempre a un punto di vista caratteristico, che è ben rilevabile dai dati che ho appena riportato e sarebbe documentabile all'infinito. Il punto di vista della grande maggioranza della stampa, non solo quella estremista, ma anche quella dei grandi giornali come il "New York Times" o "Le monde" è ormai completamente schierato secondo gli interessi palestinesi. Non si tratta semplicemente di sostenere la "lotta del popolo palestinese", che è una scelta politica come un'altra, ma di selezionare le notizie a seconda che esse favoriscano o meno questa lotta, il che è una tecnica giornalistica di disinformazione. Questo atteggiamento di "responsabilità" informativa verso una delle parti in causa  può essere più o  meno esplicito.

Chi l'ha rivendicato dieci anni fa in una celebre lettera, è Riccardo Cristiano, il corrispondente della Rai che si scusò per lo scoop di una troupe Mediaset che aveva ripreso il linciaggio di due riservisti israeliani a Ramallah, assicurando che "noi non facciamo e non faremo cose del genere" e aggiungendo "noi rispettiamo sempre e continueremo a rispettare le procedure giornalistiche dell’Autorità Palestinese per il lavoro giornalistico in Palestina e siamo attendibili per il nostro lavoro accurato". Altri giornali e giornalisti sono meno ingenui o meno spudorati. Ma resta il fatto che in Medio Oriente la notiziabilità si confonde spesso con il vantaggio di una parte. Il che trasforma il giornalismo su quel piccolo territorio in ciò che è ormai in grande maggioranza: pura e semplice propaganda.