venerdì 9 dicembre 2011

Quando si tratta di Israele i media fanno più propaganda che informazione




http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=269&sez=120&id=42537 

Riportiamo da PAGINE EBRAICHE l'articolo di Ugo Volli dal titolo " Quando si tratta di Israele i media fanno più propaganda che informazione ".

Ugo Volli


Un concetto chiave nella teoria delle comunicazioni di massa sul giornalismo è quello di notiziabilità, cioè dei criteri che trasformano i fatti in notizie. A monte del lavoro dei giornalisti, i fatti che accadono nel mondo reale sono numerosissimi, virtualmente infiniti. Ogni giorno nel mondo muoiono, per una ragione o per l'altra, letteralmente milioni di persone e decine di migliaia sono vittime di omicidi e incidenti (che potrebbero essere considerati abbastanza eccezionali da meritare l'attenzione dell'informazione). Ogni giorno si fanno accordi economici, si fondono e falliscono imprese, iniziano e si concludono lavori pubblici, si celebrano processi, si danno spettacoli ed eventi sportivi, si tengono elezioni, dibattiti parlamentari, manifestazioni, si combattono battaglie di guerre e guerriglie. Eccetera.

Anche se si guarda solo a un paese o a una città, gli eventi sono pressoché infiniti. E però un quotidiano medio contiene in tutto solo un paio di centinaia di notizie, un telegiornale o una pagina web di informazione un paio di decine. Il tutto viene per lo più da agenzie di stampa, che trasmettono nella migliore delle ipotesi un migliaio o due di notizie da tutto il mondo, su tutti gli argomenti. La diminuzione è drastica e segue più o meno una legge dell'informazione inversa: quanto più popolare è un mezzo di informazione, tanto minore il numero delle notizie comunicate.

Si può ben sostenere, dunque, che il giornalismo in generale, ancor più che come diffusione dell'informazione funziona come filtro; per questa ragione gli studiosi di comunicazioni di massa amano descrivere il lavoro del giornalismo come "gatekeeping", qualcosa come il portiere che permette o rifiuta l'accesso a certi edifici. E proprio questa azione di filtro, prima che trasmettere informazioni o determinare opinioni ha l'effetto potente dell'"agenda setting", cioè il potere di far sì che certe cose e non altre entrino fra gli oggetti di attenzione del pubblico. L'effetto è tanto più univoco quanto più le scelte giornalistiche su che cosa pubblicare sono coerenti, il che accade in maniera assai notevole di questi tempi. Se i giornali pubblicano più o meno le stesse notizie, sia pure con giudizi variati, la piccola fetta di mondo presentata al pubblico risulta assolutamente definita e con essa ciò che è importante per loro.

Questa premesse ci serve a porre quello che probabilmente è il primo problema rispetto all'informazione su Israele, il mondo ebraico, il Medio Oriente: quali sono i criteri di notiziabilità che i media impiegano per trasformare questa realtà complessa e multiforme in informazione? Si può partire dal considerare che esiste una notevole sproporzione informativa. Il Medio Oriente, anche inteso in senso allargato, è abitato da tre o quattrocento milioni di persone, ma riceve molta più attenzione dell'intera Africa, della Cina e dell'India messe assieme.

Questo effetto si accentua ancora moltissimo pensando a Israele. Fra "il fiume e il mare" vi sono una decina di milioni di persone, poco più dell'un per mille dell'umanità; la proporzione geografica è ancora minore; ma lo spazio dedicato alle vicende di questo angolo di mondo è assolutamente fuori misura e fra l'altro è assai globale, mentre di solito le informazioni politiche hanno un vincolo forte di notiziabilità locale. L'eccezione sono solo quegli eventi che hanno davvero un impatto generale, come quelli che riguardano le grandi potenze

Se consideriamo poi il contenuto di questo notiziario così eccessivo, vediamo che ciò che interessa ai media non è la cultura o la scienza o la società israeliana, le realizzazioni economiche o altro. La notiziabilità di Israele ha un tema solo, il conflitto con i palestinesi. E ancor di più: le pretese colpe di Israele nel conflitto con i palestinesi, le sue pretese violazioni dei diritti palestinesi o delle loro aspettative, le pretese debolezze israeliane. Correlativamente, hanno spazio le "iniziative di lotta" palestinesi, i riconoscimenti e gli appoggi ottenuti, pochissimo la vita reale dei palestinesi, la dinamica reale della loro vita politica.

Per fare un esempio, negli ultimi dodici mesi il nome della famiglia Fogel, barbaramente trucidata da due terroristi palestinesi ricorre 67 volte, gli indignados israeliani sono nominati in 90 articoli (tendopoli in 189). Dell'ex uomo forte di Gaza Dahlan e del durissimo conflitto che l'ha opposto al presidente palestinese Mahamud Abbas con accuse reciproche di cleptocrazia e tentatiuvo di colpo di stato, hanno parlato in tutto 25 articoli; del "simbolo" dei palestinesi condannati per terrorismo e detenuti nelle prigioni israeliane 87 volte; l'espressione "colonie" ricorre in 387 articoli ("nuovi insediamenti" in 216, costruzioni in 282).

Il premio Nobel per la chimica a uno scienziato israeliano si merita appena sei citazioni. Negli ultimi giorni si è parlato molto più dei "freedom riders", l'iniziativa inventata da qualche Ong e sostanzialmente rimasta sulla carta per far "invadere" ai palestinesi gli autobus diretti agli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria, protetti per evidenti ragioni di sicurezza, che della prossima sostituzione di Salam Fayyad (il "tecnico" formato negli Stati Uniti che governa da alcuni anni l'Autorità Palestinese), secondo una logica economica, senza essersi guadagnato i galloni col terrorismo: ne hanno parlato solo Il foglio e Il manifesto, naturalmente con sentimenti opposti. I giornali sostanzialmente non parlano del lancio di razzi e proiettili di mortaio da Gaza sul territorio israeliano, anche quando fa vittime e danni, mentre la reazione israeliana, quando arriva, viene puntualmente denunciata. E' degli scorsi giorni l'avvertenza severa della Francia, riportata da molti giornali, per cui Israele deve badare bene a non coinvolgere i civili mentre cerca di fermare i terroristi che mirano esattamente sui civili israeliani.

E' chiaro che questa concentrazione sul conflitto è un fatto molto negativo, che illustra malissimo le vere dinamiche mediorientali e rende un pessimo servigio a Israele e al popolo ebraico. D'altro canto, questa alta notiziabilità si unisce sempre a un punto di vista caratteristico, che è ben rilevabile dai dati che ho appena riportato e sarebbe documentabile all'infinito. Il punto di vista della grande maggioranza della stampa, non solo quella estremista, ma anche quella dei grandi giornali come il "New York Times" o "Le monde" è ormai completamente schierato secondo gli interessi palestinesi. Non si tratta semplicemente di sostenere la "lotta del popolo palestinese", che è una scelta politica come un'altra, ma di selezionare le notizie a seconda che esse favoriscano o meno questa lotta, il che è una tecnica giornalistica di disinformazione. Questo atteggiamento di "responsabilità" informativa verso una delle parti in causa  può essere più o  meno esplicito.

Chi l'ha rivendicato dieci anni fa in una celebre lettera, è Riccardo Cristiano, il corrispondente della Rai che si scusò per lo scoop di una troupe Mediaset che aveva ripreso il linciaggio di due riservisti israeliani a Ramallah, assicurando che "noi non facciamo e non faremo cose del genere" e aggiungendo "noi rispettiamo sempre e continueremo a rispettare le procedure giornalistiche dell’Autorità Palestinese per il lavoro giornalistico in Palestina e siamo attendibili per il nostro lavoro accurato". Altri giornali e giornalisti sono meno ingenui o meno spudorati. Ma resta il fatto che in Medio Oriente la notiziabilità si confonde spesso con il vantaggio di una parte. Il che trasforma il giornalismo su quel piccolo territorio in ciò che è ormai in grande maggioranza: pura e semplice propaganda.

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