mercoledì 30 novembre 2011

Scenari ipotetici di guerra tra Iran e Israele

Roma. La più importante società di intermediazione israeliana, la Clal Finance, dubita che lo stato ebraico possa realizzare un attacco militare contro le infrastrutture nucleari iraniane (visto il costo economico altissimo per un Occidente già in ginocchio per la crisi economica), ma per la prima volta l’ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema dell’Iran, ha pubblicato sul proprio sito internet tre possibilità di reazione in caso di conflitto con Israele. 

Mentre un lancio dell’agenzia Fars parla di una forte esplosione nella zona di Isfahan, dove c’è uno dei siti nucleari iraniani, lunedì mattina alle 2 e 40, poi prontamente tolto dal sito, alimentando le preoccupazioni, Khamenei prevede tre scenari d’attacco da parte del “piccolo Satana”: nel primo si parla di “guerra d’attrito” con forze aeree e terrestri; nel secondo, il più probabile, lo stato ebraico colpirebbe i centri di controllo in Iran, nella speranza di un cambio di regime; nel terzo Gerusalemme punterebbe a distruggere le installazioni nucleari. L’ayatollah spiega che, in caso di conflitto nucleare, l’Iran sopravviverà anche al costo di centinaia di migliaia di vittime. Il generale dei pasdaran, Yadollah Javani, ha detto che non un solo centimetro di territorio israeliano sarebbe risparmiato dalla vendetta dei mullah. Uri Milstein, uno dei più celebri analisti israeliani, ha appena fatto una stima che va dalle 50 alle 100 mila vittime israeliane in caso di guerra regionale. 

“Hanno anche preparato fosse comuni al Bloomfield Stadium di Haifa”, ha detto Milstein ad Arutz Sheva. Ma Israele sopravviverà. Il maggiore giornale israeliano, Yedioth Ahronoth, ha rispolverato il più credibile scenario nucleare. E’ firmato dall’esperto Anthony Cordesman del Center for Strategic and International Studies. La guerra durerebbe tre settimane. Gli iraniani potrebbero avere tra i sedici e i ventotto milioni di morti. Molti “meno” gli israeliani: tra i duecento e gli ottocentomila caduti. Anche in questo scenario, alla fine lo stato ebraico dovrebbe sopravvivere. Secondo le stime, Israele attualmente ha un megatone nucleare, mentre l’Iran può produrne cento kilotoni. Significa che una bomba israeliana è tre volte più letale di quella di Teheran e può devastare un’area dieci volte superiore. Israele colpirebbe con missili a testata nucleare lanciati da tre sottomarini le più importanti città iraniane e le installazioni sensibili. Oltre alla capitale, Teheran, sono considerate potenziali bersagli Tabriz, Qazvin, Isfahan, Shiraz, Yazd, Kerman, Qom e Ahwaz. Da parte loro gli iraniani avrebbero nel mirino delle loro potenziali cinquanta testate quattro aree israeliane: Tel Aviv, Haifa, l’area di Beersheba (compresa la centrale atomica di Dimona) e nel sud porto di Eilat. 


Il Center for International and Strategic Studies ha anche reso noti gli effetti di un potenziale scontro atomico: un ordigno iraniano su Tel Aviv causerebbe ventimila morti, oltre ad altre migliaia di vittime per le conseguenti radiazioni. Un ordigno da appena cento kilotoni su Tel Aviv contaminerebbe per oltre un anno l’intero territorio israeliano, sconfinando anche in Libano, Siria, Giordania ed Egitto. A Hiroshima e Nagasaki furono usati “appena” venti kilotoni. La simulazione non esclude che il conflitto possa estendersi alla Siria, alleata di Teheran (anche se la situazione a Damasco, nella sua fragilità e con le misure sanzionatorie predisposte anche dalla Lega araba, rende una reazione siriana meno probabile).

In questo caso Israele sarebbe colpito da ordigni chimici e batteriologici. E in questo caso il bilancio delle vittime salirebbe: altri ottocentomila israeliani.
martedì 29 novembre 2011

L'Unesco cerca di rubare la storia di Israele e del suo popolo


 http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=58&sez=110&id=42438

Riportiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA del 25/11/2011, a pag. 59, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo  " L'oro della Palestina che grazie all'Unesco (forse) torna a casa ".
L'articolo di Fabio Scuto contiene una serie lunghissima di menzogne sulla situazione dei siti archeologici in Israele e Cisgiordania. Scuto accusa ingiustificatamente Israele di furto e, nel corso dell'articolo, fa proprie le tesi dei palestinesi.
"
 il ministro della Cultura palestinese Siham al Barghuti definisce la decisione «un grande successo  diplomatico, che ci permetterà di proteggere  il nostro patrimonio e la cultura». ". 

 Già questa frase è scorretta. Non esiste nessun patrimonio nè nessuna cultura palestinese. Non esiste un popolo palestinese. Esiste quello ebraico, da millenni. Quello palestinese esiste come frutto della propaganda araba dal '48, dalla nascita di Israele. Prima della nascita di Israele non esisteva uno Stato palestinese. La Palestina è diventata un mandato britannico alla fine della prima guerra mondiale, con la fine dell'impero ottomano. Sotto l'impero turco non c'era traccia dei palestinesi, nè ce n'era prima. Non è mai esistito un popolo palestinese, perciò non è ben chiaro a quale patrimonio culturale si riferisca Siham al Barghuti.
Scuto, però, continua : "
tra le migliaia di reperti trafugati, uno dei più bei mosaici del periodo romano, scoperto nel 1973 a Nablus e staccato dal sito originale dagli archeologi dell'esercito israeliano, per essere esposto nel Museo di Israele di Gerusalemme". Un mosaico romano trovato a Nablus ora esposto al Museo di Israele di Gerusalemme, cioè in un luogo aperto al pubblico. Scuto lamenta il fatto che i palestinesi senza visto non possono andarci, ma allora se il problema è il visto, la questione è un'altra . Un mosaico romano appartiene forse alla presunta cultura palestinese?
Scuto continua : "
Risalente all'epoca dell'imperatore Costantino,IV secolo, la Basilica della Natività è per la cristianità una delle chiese più antiche e sacre, ma la mancanza di mezzi non consente interventi di mantenimento.". 

La Basilica della Natività si trova a Betlemme, sotto la mai abbastanza lodata amministrazione dell'Anp di Mahmoud Abbas. Con tutti gli aiuti umanitari che riceve da Usa e Ue ogni anno, com'è possibile che manchino i fondi per gli interventi di mantenimento? Ma ce ne sono ancora di cristiani a Betlemme ? per loro è un tale paradiso che, appena possono, emigrano, Perchè Scuto non ci fa un bell'articolo ?
Scuto scrive : "
E poi Hebron e Gerico. una delle città più antiche dell'umanità, diecimila anni di storia. A Hebron si trova la Tomba dei Patriarchi -- la moschea di Ibrahim per l'Islam - luogo di culto diviso in due parti, una per gli ebrei l'altra per i musulmani. Infine, il patrimonio della Terrasanta, ostaggio del conflitto israelopalestinese. ".

Hebron e Gerico sono due città ebraiche. 'Grazie' all'Unesco si crede erroneamente che la Tomba dei Patriarchi sia un luogo sacro per l'islam. L'Unesco ha, da sempre, aiutato i palestinesi nella loro missione di cancellazione e appropriazione della storia ebraica. E' solo un altro dei modi per delegittimare Israele.
Per questo motivo, l'accettazione dell'adesione della Palestina ha scatenato le reazioni di Israele e Stati Uniti che hanno congelato i fondi ad essa destinati.
Ricordiamo, inoltre, che sotto la gestione israeliana, l'accesso ai luoghi sacri è garantito a chiunque. Non si può dire così per la gestione araba. Ne è un esempio la gestione giordana di Gerusalemme prima del '67, quando al Kotel vennero sistemati degli orinatoi, in segno di 'rispetto' per la cultura ebraica.
Per maggiori informazioni sull'Unesco e sui suoi furti della storia di Israele, digitare 'Unesco' nella casella 'cerca nel sito in alto a sinistra sulla home page di Informazione Corretta.
Ecco il pezzo di Scuto:


 

Un nuovo logo per Unesco? la faccia di Mahmoud Abbas

L'ammissione all'Unesco, l'organismo dell'Onu per l'Educazione, la scienza e la cultura, permetterà ai palestinesi di candidare molti siti prestigiosi a Patrimonio mondiale dell'Umanità, fonte di grande richiamo per il turismo ma anche di querelle esplosive (prova ne sia lo stop dei programmi Unesco fino alla fine del 2011 dopo il blocco dei finanziamenti statunitensi seguito all'ammissione della Palestina).
Parlando nel suo ufficio di Ramallah con Repubblica, il ministro della Cultura palestinese Siham al Barghuti definisce la decisione «un grande successo  diplomatico, che ci permetterà di proteggere  il nostro patrimonio e la cultura». Dal 1967 in poi il trasferimento di beni archeologici dai Territori palestinesi verso Israele è stato una costante: tra le migliaia di reperti trafugati, uno dei più bei mosaici del periodo romano, scoperto nel 1973 a Nablus e staccato dal sito originale dagli archeologi dell'esercito israeliano, per essere esposto nel Museo di Israele di Gerusalemme.

Luogo dove i palestinesi non possono andare: a loro, se non residenti, è vietato l'accesso alla Città Santa Anche molti reperti ritrovati a Gaza - porto di grande importanza nel periodo romano - frutto degli scavi di archeologi israeliani durante i 38 anni di occupazione, sono oggi per lo più esposti nello stesso museo. Per difendere quello che resta, trovare finanziamenti e conservare i suoi beni archeologici, l'Autorità palestinese punta sull'Unesco. Già presentata ufficialmente la candidatura di Betlemme, Cisgiordania, la città cristiana dove sorge la Basilica della Natività e dove nacque, secondo i cattolici, Gesù Cristo. La decisione è attesa entro luglio 2012.

La città, primo sito turistico del Paese, ha accolto folle record di pellegrini lo scorso Natale. Un fatto economico non trascurabile per la città strangolata dal «Muro di sicurezza» israeliano e privata di gran parte dei terreni agricoli. Risalente all'epoca dell'imperatore Costantino,IV secolo, la Basilica della Natività è per la cristianità una delle chiese più antiche e sacre, ma la mancanza di mezzi non consente interventi di mantenimento.

L'Anp conta di iscrivere anche altri 20 siti da tutelare: come il Gazim (monte sacro dei Samaritani) e le Grotte di Qumran dove vennero ritrovati i Manoscritti del Mar Morto. Diversi sono a Gerusalemme. C'è innanzi tutto la Old City (nella zona Est della città, quella araba annessa dopo la guerra del 1967) nella sua interezza, ma soprattutto la Spianata delle moschee (terzo luogo santo dell'Islam) e il Santo Sepolcro. E poi Hebron e Gerico. una delle città più antiche dell'umanità, diecimila annidi storia. A Hebron si trova la Tomba dei Patriarchi -- la moschea di Ibrahim per l'Islam - luogo di culto diviso in due parti, una per gli ebrei l'altra per i musulmani. Infine, il patrimonio della Terrasanta, ostaggio del conflitto israelopalestinese. L'ammissione all'Unesco rischia così di riaccendere i contenziosi territoriali delle tre grandi religioni monoteiste - ebraismo, cristianesimo e islam. A Gerusalemme, soprattutto, nel cosiddetto «miglio santo», poco più di un chilometro quadrato, dove si trovano i siti più contesi, la disputa sarà senza esclusione di colpi.
lunedì 28 novembre 2011

SWC Condemns Muslim Brotherhood Genocidal Calls Against Jews

'Yesterday's Rants May be Tomorrow's Official Policy'
November 28, 2011

The Simon Wiesenthal Center condemned genocidal rants at a rally involving 5,000 activists, convened Friday at Cairo's most prominent Mosque, by the Muslim Brotherhood.

"It is shocking to hear the Muslim Brotherhood 'activists' vowing to "one day kill all Jews" and "Tel Aviv, Tel Aviv Judgment Day is coming! But the roar of their genocidal rants was matched by a shocking silence of world leaders,"
charged Rabbi Abraham Cooper, associate dean of the Simon Wiesenthal Center.
"Without vociferous condemnation, led by the United States, France and Germany, of such murderous hate, yesterday's rants may yet become tomorrow's official policy in a government in which the Muslim Brotherhood will surely play a pivotal role," Cooper continued.

The Obama Administration and others have entered into direct dialogue with the Muslim Brotherhood and have also demanded an immediate turnover of power to civilian control.
"The failure of world leaders to hold the Muslim Brotherhood accountable for such genocidal hate on the eve of elections in Egypt, will only further embolden the Brotherhood's extremism which threatens religious minorities and could end the Egyptian-Israel Peace Treaty. The Obama Administration must take the lead in publicly demanding that The Muslim Brotherhood and its allies stop their anti-peace campaign and genocidal Jew-hatred rallies or face the end of US massive aid," Cooper concluded.


The Simon Wiesenthal Center is one of the largest international Jewish human rights organizations with over 400,000 member families in the United States. It is an NGO at international agencies including the United Nations, UNESCO, the OSCE, the OAS, the Council of Europe, and the Latin American Parliament (Parlatino).

l commento settimanale di Riccardo Pacifici

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=42420 

Riccardo Pacifi, presidente della Comunità Ebraica di Roma
Ho pensato più volte in questa settimana, su cosa intervenire. Ci sono dibattiti interni alle Comunità sulla nostra identità e rapporto con Israele, nonostante si affacci ogni giorno di più la minaccia nucleare iraniana, prevale quasi con autolesionismo masochista, ancora le posizioni di distinguo dentro il popolo ebraico, incosciente delle reali priorità.

Un altro tema era quello legato al cambio di Governo con l'ingresso del nuovo esecutivo di unità nazionale del neo premier Mario Monti e l'ansia, scongiurata, che il dicastero degli esteri l'avrebbe potuto guidarlo personalità con posizioni dell'Italia filo araba del pre Berlusconi. Fortunatamente la nomina dell'ambasciatore Terzi, a cui facciamo i nostri sinceri auguri all'amico di sempre,  ci ha fatto tirare un sospiro di sollievo.
La crisi economica che attanaglia, non solo l'Italia, ma l'Europa tutta, dovrebbe imporre alle Comunità Ebraiche (non solo italiane) un attenta riflessione sui rischi che si corrono per il riaccendersi di focolai xenofobi, li dove svariate forze politiche già hanno in molti Paesi dell'UE punti percentuali che possono solo che aumentare con il peggiorare della crisi.

Nello stesso tempo registriamo, almeno a Roma , una forte incremento delle Alyot (emigrazione in Israele) e di intere famiglie. Un fatto questo che in una Comunità ebraica secolarizzata farebbe allarmare chiunque sedesse sulla mia "poltrona" per il rischio serio di diminuzione demografica, mentre io personalmente la vivo come un grande successo dell'impegno sionista e per Israele che da anni proviamo a trasmettere. Alyot che sono segnate in parte dalla crisi economica ed impoverimento molte famiglie, ma in molti altri casi della presa di coscienza - finalmente - che Israele non è più Terra di rifugio dai pogrom o persecuzioni, bensì luogo dove trovare una speranza di rinascita economica (il PIL cresce del 7% nel 2011) e vedere garantita la propria continuità ebraica, li dove inesorabilmente il rischio assimilazione, vede molte Comunità ebraiche in Italia avere numeri così esigui di iscritti da non poter garantire i più essenziali servizi.

Si potrebbe anche parlare del dibattito, sterile e inutile, del ruolo dei Rabbini riformati, che possono minare identità nostre piccole comunità. Mentre di fatto tale esperienza è seppellita già prima di nascere se si leggono i così numeri esigui degli aderenti, a fronte per esempio a Roma di una rinascita e risveglio ebraico con, non solo apertura di nuovi luoghi di preghiera, ma come luoghi d'inteso studio dei testi sacri che ci fa gridare al miracolo.

Invece voglio condividere, questa volta si con voi lettori, dell'emozione che sto provando da alcuni giorni, per l'incontro così atteso e sperato per anni, con Gilad Shalit. Il 12 dicembre mattina sarò a casa sua, ricevuto dai genitori Noam e Aviva, e sarò con il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il cui impegno costante e sincero a nome di tutta la città di Roma per la sua liberazione, gli ha fatto avere il privilegio di poter visitare Gilad quale primo politico fuori da Israele. Un privilegio che consentirà al presidente della più grande comunità ebraica d'Italia, ma tra le più piccole del mondo, di vivere l'emozione di poterlo abbracciare e consegnare nella sue mani il braccialetto di stoffa gialla che per tre lunghi anni ho portato al polso per " non dimenticarmi della sua prigionia". Porterò l'abbraccio e l'emozione di ognuno dei 15 mila ebrei romani che dalle pagine di facebook ogni sera gli davano la buona notte e le "madri d'Israele" il venerdì sera accendevano le candele dello shabbat pregando per la sua liberazione. Quelle preghiere sono arrivate a destinazione. I suoi genitori ci aspetteranno a Mizpè Hilà con la voglia di farci passeggiare nelle stradine di questa piccola cittadina ai confini con il Libano nell'alta Galilea.

Un gesto di orgoglio e di voglia condividere con la delegazione romana, la vita di tutti i giorni di una famiglia qualunque israeliana. Un gesto semplice ma altamente significativo. Israele, così come la famiglia Shalit, è consapevole che liberato Gilad, curate le sue ferite, lasciate marcire dalle belve di Hamas in questi 5 anni di prigionia. Sopratutto curato l'equilibrio psichico di un giovane ragazzo strappato dai suoi affetti e dal mondo intero per 5 lunghi anni, li attenderà, come per ogni israeliano la "normalità", ovvero dover combattere ancora per la propria sopravvivenza. Il nemico, Hezbollah è li a pochi chilometri di distanza. Se qualcuno si è dimenticato cosa accadde in quelle cittadine del nord d'Israele nel 1982 alla vigilia della guerra "Pace in Galilea". Se qualcuno ha dimenticato la guerra del 2006, significa che ha dimenticato di interi paesi costretti a vivere sotto terra per mesi e mesi in attesa di nuovi missili. La mia angoscia è questa e se come ci spiegò il sindaco di Sderot, questo è un trauma che i bambini d'Israele si porteranno per tutta la vita, non oso immaginare cosa potrà significare per Gilad Shalit tornare, mai sia, in un bunker, dopo i suoi  cinque anni vissuti sotto terra. Ma ora credo sia giusto godersi la libertà e per noi da Roma l'onore ed il privilegio di conoscere finalmente un eroe d'Israele. Spero del futuro Premio Nobel per la Pace.

L'unico vero, grande problema della nostra generazione

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=42425 

Da MOKED di oggi, 27/11/2011, con il titolo "L'unico vero, grande problema della nostra generazione" il commento domenicale di Ugo Volli.

Lo "tsunami diplomatico" su Israele, preconizzato da molti per l'autunno, si è risolto per il momento in poca cosa. Lo status palestinese all'Onu non è stato elevato, soprattutto per l'insipienza o piuttosto l'estremismo diplomatico dell'Autorità Palestinese, che ha presunto troppo delle proprie forze e ha scommesso sul tutto-o-niente chiedendo il pieno riconoscimento come stato sovrano membro e rifiutando qualunque soluzione di compromesso.

L'ammissione all'Unesco si è rivelata una vittoria di Pirro per l'organizzazione e in fondo anche per l'AP, che ha scontentato ancora una volta quella che si presumeva poter essere la sua grande protettrice, l'amministrazione Obama. Le numerose minacce turche sono rimaste per ora sulla carta. I rapporti con l'Egitto sono gelidi (o se si vuole incandescenti, visto che il gasdotto, il principale legame economico fra i due paesi è stato fatto saltare in aria da terroristi otto volte quest'anno), ma non sono degenerati in scontro aperto. Grazie alla gestione oculata e lucida di Netanyahu Israele sembra essere uscito per ora senza danni dall'anno del grande trambusto in Medio Oriente.

Certo però la minaccia iraniana è sempre più attuale e la comunità internazionale non può e in buona parte non vuole farvi fronte. E il calderone dei paesi arabi continua a ribollire, ambiguamente alimentato dall'Occidente, anche se è sempre più chiaro che ciò che vi si cuoce è un integralismo islamico che di moderato ha solo il nome. Per l'Occidente la minaccia è globale, ma sembra lontana; per Israele è chiaro invece che il fronte dell'odio militante sta conquistando uno per uno anche paesi che ne erano rimasti abbastanza al riparo, come Tunisia e Marocco, ed erodendo tutte le possibilità di mediazione politica. L'aspetto più preoccupante è il riemergere dell'anima revanscista della politica palestinese, la stessa che portò alle convulsioni suicide e omicide chiamate "intifade", cioè letteralmente "scrolloni": eccessi di odio e di intolleranza quasi animale, come  denuncia anche il nome. In tutto il mondo islamico le politiche e i sondaggi dicono lo stesso: che, costi quel che costi, non vi è la minima disponibilità ad accettare uno stato del popolo ebraico. Le tattiche sono diverse e possono includere anche dei momenti di trattativa, o piuttosto la loro simulazione o negazione, ma la "soluzione finale" è la stessa, l'eliminazione degli "ebrei" (la distinzione fra israeliani ed ebrei, coltivata dalla pubblicistica occidentale anche di parte ebraica, è sostanzialmente ignorata nel mondo islamico).

E' una situazione che richiede una guida abile e lucida, come quella dell'attuale governo israeliano, ma che impone anche una riflessione anche a tutto il mondo ebraico. Le illusioni di Oslo vanno lasciate cadere, non esiste, fuori dal mondo dei puri desideri, la possibilità di una pace nel breve ma anche nel medio periodo. E' possibile che presto scoppi una guerra, per mano di Hezbollah, di Hamas, per via del nucleare iraniano o per altre ragioni; è anche possibile che le cose vadano avanti come ora, con una situazione che bisogna definire guerra d'attrito. E' un conflitto continuo a bassa intensità che si svolge su molti fronti: il terrorismo dei razzi da Gaza, delle infiltrazioni, degli attentati "locali" in Giudea, Samaria e a Gerusalemme, come ce ne sono stati tanti e poco considerati negli ultimi mesi; la guerra diplomatica, quella dei media, quella delle occasioni artificiali di scontro mediatico come "flottiglie" e marce; le minacce continue di potenze islamiche come Iran e Turchia, eccetera. Quel che oggi non appare proprio possibile è un allentarsi della tensione, quel franco riconoscimento del diritto all'esistenza di Israele come stato del popolo ebraico che è la premessa necessaria della pace.
Guerra o mezza guerra, insomma, per tutto il tempo che possiamo umanamente prevedere o calcolare. La pace non è oggi nell'ordine delle possibilità reale, è una parola che ha solo referenza propagandistica. Quel che accade e che si può prevedere è la continuazione di un braccio di ferro in cui l'elemento decisivo è la capacità di resistere di fronte a una potenza soverchiante, sul piano dei numeri, se non ancora dell'armamento, ma anche dell'opinione pubblica e della comunicazione. Questi ultimi fronti toccano direttamente anche noi, ebrei della diaspora: siamo e saremo capaci di reggere questa situazione, di fare la nostra parte per scongiurare la distruzione del nostro stato e di buona parte del nostro popolo? E prima di tutto: siamo abbastanza lucidi da renderci conto che questo è il problema, l'unico grande vero problema della nostra generazione ebraica?
domenica 27 novembre 2011

Ansa cancella l'articolo di Alma Safira, totale propaganda di odio contro Israele

Ieri, 25/11/2011, IC pubblicava questa pagina, che riprendiamo per i lettori ai quali fosse sfuggita.
é una nostra vittoria, e dei nostri lettori, grazie alle proteste arrivate a ANSA, l'articolo di Alma Safira è stato cancellato dal sito di ANSAmed.
Riconosciamo con piacere al direttore Contu il merito di essere intervenuto per cancellare un articolo indegno di apparire in un paese, il nostro, che si vanta di avere una informazione libera e democratica, mentre troppo spesso è asservita alla propaganda palestinese.

a destra il logo dell'agenzia, al quale rivolgiamo, dopo anni di critiche, il nostro primo apprezzamento, augurandoci di non doverci ricredere.
 

 L'articolo in questione è reperibile qui : http://noantisemitismo.blogspot.com/2011/11/compatire-i-terroristi-palestinesi.html

Neo-Nazi tedeschi con licenza di uccidere

 http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=42402


di Manfred Gerstenfeld(traduzione di Angelo Pezzana)

in alto a sinistra,Manfred Gerstenfeld

 BDS, la nuova guerra contro Israele

All’inizio di questo mese è stata scoperta in Germania una banda di neo-nazisti responsabile in questi ultimi dodici anni di dieci omicidi, quattordici rapine in banca e dell’invio di due pacchi postali esplosivi. La maggior parte delle vittime erano cittadini di origine turca.

Questa rivelazione ha avuto in Germania conseguenze materiali e psicologiche, rivelando un aspetto del paese per l’eco avuto a livello internazionale da un lato e per Israele dall’altro. Il fatto che una banda di piccole dimensioni possa aver commesso quei crimini lungo un periodo di tempo così lungo, ha sollevato molte domande, fra le quali alcune sui rapporti intercorsi fra i neo-nazi e i membri dei servizi segreti tedeschi.

L’impatto psicologo è di natura diversa. Non è da ieri che molti tedeschi cercano di auto assolversi, fino alla cancellazione, da quanto è avvenuto nel loro paese sotto il regime nazista.

La storica tedesca Susanne Urban ha descritto come le famiglie tedesche hanno sistematicamente falsificato ilo comportamento dei loro congiunti, dando l’impressione che dal 1933 al 1945 l’intera società tedesca non avesse collaborato con i nazisti. (1)

Secondo questa distorta narrazione della storia del Terzo Reich, il 26% dei tedeschi aveva aiutato chi veniva perseguitato, il 13% era stato attivo nella resistenza, il 9% aveva affrontato da una prospettiva religiosa  i perseguitati e il 17% si era schierato apertamente contro la propaganda nazista. Solo l’ 1% era stato coinvolto in attività criminali e solo il 3% era stato antisemita. (2) Un ruolo importante l’ha avuto lo storico Jorg Friedrich, che nel suo ultimo libro paragona il bombardamento delle città tedesche con i crematori di Auschwitz (3), un libro che ha venduto decine di migliaia di copie.

Questo mondo tedesco inventato è stato sottoposto a un brusco risveglio dalla scoperta di altre decine di gruppi neo-nazi operanti in Germania oggi. L’estrema sinistra era stata messa sotto osservazione per i suoi coinvolgimenti criminali del passato con le Brigate Rosse della Banda Baader Meinhof. Anche l’estremismi musulmano viene controllato, anche se la xenofobia tedesca è stata finora sottovalutata.

Per quanto riguarda gli aspetti internazionali, la Germania svolge un ruolo fondamentale nell’attuale crisi economica europea, responsabile com’è nel tentativo di salvare la comune moneta europea, l’euro. Alcun i dei rappresentanti più influenti del paese richiedono un maggiore impegno della Germania nelle istituzioni europee, per esempio nella Banca Centrale Europea. La richiesta di una influenza più grande in un momento nel quale vengono alla luce gruppi neo-nazisti, fa sorgere ulteriori domande su come i tedeschi vedono il ruolo della Germania nel futuro dell’Europa.

Uno dei modi più frequenti per ripulire l’immagine della Germania dagli immensi crimini del suo passato è accusare Israele di comportarsi nello stesso modo dei nazisti. Gli esempi da citare sono molti, anche non recenti. Norbert Blum, già Ministro del Lavoro del partito cristiano-democratico, scrisse nel 2002 all’allora ambasciatore israeliano Shimon Stein sulla “ Vernichtungskrieg” contro i palestinesi, il termine tedesco per “guerra di sterminio”. Accusa che ripeté in una intervista al settimanale “Stern” (4).

Israele farebbe bene a seguire lo sviluppo di questi casi in Europa. Il danno causato è molto serio e ha vari aspetti, in grande misura più gravi di quanto ritengano molti israeliani, anche se raramente si manifesta con atti di terrorismo anti-israeliano compiuti da europei. L’aspetto più rilevante è il sostegno finanziario europeo ai palestinesi, che serve, in parte, a finanziare i gruppi terroristi. Un altro aspetto significativo riguarda i differenti livelli dell’aggressione verbale degli europei. La manifestazione più evidente è la demonizzazione di Israele attraverso condanne immotivate, l’uso dell’odio come base di propaganda, la discriminazione insieme alla pratica del doppio standard e la equiparazione morale.

Israele è la testimonianza che ci consente di capire come si manifestano i molti aspetti della criminalità – ideologica e non – diffusa in Europa, penetrata nella sua società come non era mai avvenuto anche solo qualche decina di anni fa.

Per essere in grado di combattere l’aggressione verbale europea contro Israele, gli israeliani – e i loro alleati – devono essere consapevoli di quel che accade in Europa. Più importante della difesa quando si è attaccati è registrare, e far conoscere, i vari aspetti dell’ostilità nei vari paesi europei.
La banda neo-nazi, seguita con clamore dai media, non è altro che una piccola parte di un  quadro molto più vasto.

 [1]) Susanne Y. Urban, “Representations of the Holocaust in Today’s Germany: Between Justification and Empathy,” in Manfred Gerstenfeld, The Abuse of Holocaust Memory: Distortions and Responses, 202.
2) Harald Welzer, Sabine Moller, und Karoline Tschuggnall, eds., Opa war kein Nazi. Nationalsozialismus und Holocaust im Familiengedächtnis (Frankfurt am Main: Fischer, 2002). [German].
3) Jörg Friedrich, Der Brand. Deutschland im Bombenkrieg (Berlin: Propyläen Verlag, 2002) [German]; idem, Brandstätten (Berlin: Propyläen Verlag, 2003) [German].

4) "Der Vorwurf des Antisemitismus wird auch als Knuppel benutzt," Stern, 18 June 2002 [German].

Manfred Gerstenfeld è Presidente del Consiglio di Amministrazione del Jerusalem Center for Public Affairs. Collabora con Informazione Corretta.
sabato 26 novembre 2011

Compatire i terroristi palestinesi scarcerati in cambio di Gilad Shalit


 http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=280&sez=110&id=42403


Riportiamo dall'ANSAMED l'articolo di Alma Safira dal titolo "Mo: ex detenuti palestinesi alla ricerca nuova vita in Qatar".
Ansamed è una sigla che appartiene ad ANSA, ancora una volta chiediamo al Direttore Contu se ritiene onesta informazione pubblicare  articoli come questo che riprendiamo.


ANSA med,     Qatar,               Mahmoud Abbas sorride (forse ha letto il pezzo di Alma Safira?)

Nell'articolo che segue, Alma Safira dipinge i terroristi ex detenuti palestinesi rilasciati in cambio di Gilad Shalit come ciò che non sono, vittime.
Nel pezzo vengono riportate le dichiarazioni di alcuni dei 15 terroristi che sono stati rilasciati a patto che non facessero ritorno in Cisgiordania.
 

Safira non commenta le loro dichiarazioni e le riporta fra virgolette, lasciando intendere che le condivide. Perciò nel pezzo si leggono le solite storie, frutto della propaganda araba contro Israele. I terroristi passano per vittime imprigionate per periodi di tempo lunghi diversi anni, di solito espressi in terzi della loro vita. Sul fatto che abbiano commesso dei crimini, su quali fossero i crimini commessi, sul fatto che siano stati regolarmente processati e riconosciuti colpevoli da una corte, sul fatto che le loro condizioni in carcere fossero le stesse di tutti gli altri detenuti, non una sillaba.
 

Poveri terroristi, hanno dovuto scontare una pena in carcere, perciò non hanno potuto continuare le loro vecchie attività o terminare gli studi. Sono loro le vittime, e non gli israeliani massacrati nei loro attentati. E ora che sono liberi pun non avendo scontato tutta la pena continuano ad essere vittime, perchè non sono con le loro famiglie rimaste in Cisgiordania.
 

Su Gilad Shalit, sul fatto che abbia trascorso un quinto della propria vita prigioniero dei terroristi della Striscia, sul fatto che Hamas abbia impedito alla Croce Rossa di visitarlo per i cinque anni e mezzo della sua prigionia, sul fatto che sia stato rapito sul suolo israeliano con lo scopo di essere usato come merce per ricattare lo Stato ebraico, non una sillaba. Sulla tortura dovuta subire dalla famiglia Shalit che per anni non ha avuto notizie del ragazzo, niente. Sul dolore provocato alle famiglie delle vittime dei terroristi che hanno visti scarcerati gli aguzzini dei loro cari nonostante fossero stati condannati in un tribunale, silenzio.
 

Il pezzo, visti i toni e il contenuto, sembra uscito direttamente da un'agenzia stampa dell'Anp e approvato da Abu Mazen.
 

Ecco il pezzo:
(ANSAmed) - DOHA, 24 NOV - A metà ottobre l'israeliano Gilad Shalit è stato liberato in cambio di 1.027 prigionieri palestinesi di cui 15 sono stati trasferiti in Qatar in accordo con Israele. Sono giovani, solo tre hanno qualche capello bianco, quasi tutti studiavano all'università prima di finire nelle prigioni israeliane. Sono arrivati a Doha il 19 ottobre e ora sono ospitati dal Qatar che si occupa di ogni loro esigenza materiale e anche spirituale. Appena liberati infatti il Qatar in accordo con l'Arabia Saudita ha portato gli ex detenuti a fare l'Haj, il pellegrinaggio pilastro dell'Islam, durante il periodo di Eid, festa islamica del sacrificio. Ora vivono in un albergo nella zona residenziale di Al Dafna, West Bay, al centro della capitale Doha. E' passato oltre un mese dal loro arrivo, per ora non lavorano né studiano, ma sono pronti a crearsi una vita in Qatar dal momento che per ora non gli è consentito tornare in Palestina.

Mosa Dodeen è stato quasi 20 anni in carcere, prima era uno studente di chimica all'università di Hebron. Ha continuato a studiare anche in prigione e ha ottenuto un master in Business Administration all'Università di Washington e ora vorrebbe continuare a studiare. Majde Amro ha 33 anni di cui un terzo passati in carcere avendo una condanna per 190 anni di galera.

Studiava ingegneria elettronica al Politecnico e ora vorrebbe continuare a studiare anche lui. "Penso di rimanere in Qatar per circa 5 anni. Passato questo periodo forse avrò la possibilità di tornare in Palestina e voglio continuare a combattere per la mia gente", ha dichiarato Amro. Sembra che tutti vogliano riprendere la loro vita da dove l'avevano lasciata prima della prigionia come se si potessero annullare quegli anni in carcere, una esperienza però difficile da cancellare. Quando raccontano della loro vita prima del carcere sembra che stiano parlando di un'altra persona, non di sé, perché ormai quel passato è così lontano da sembrare quasi estraneo, ma si aggrappano con tutte le loro forze a quella gioventù in libertà per ritrovare un punto da cui ripartire.

Tarq Ziad ha 30 anni di cui 9 passati in carcere. Prima lavorava come calzolaio, mentre ora vorrebbe studiare in Qatar.

Quasi nessuno di loro ha una moglie o dei figli, ma tutti hanno una famiglia in Palestina che ora si sta cercando di far venire in Qatar. "Sono felici di essere liberi, ma non possono tornare a casa loro in Palestina. Potrebbero passare mesi o anni prima che possano ritornare a casa e intanto il governo qatarino si sta occupando di loro anche attraverso una futura integrazione nel mercato del lavoro locale", ha dichiarato Munir Ghanam, ambasciatore palestinese in Qatar.

Paola Caridi megafono della propaganda palestinese contro Israele



Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 25/11/2011, a pag. 17, l'articolo di Paola Caridi dal titolo "Anp e Hamas: elezioni in maggio".

Mahmoud Abbas con Khaled Meshaal
Paola Caridi scrive : "Prima un faccia a faccia tra il presidente dell’Anp Abu Mazen e il leader di Hamas". Hamas è un'associazione terroristica riconosciuta tale dall'Onu e dalla UE. Definire semplicemente 'leader' Khaled Meshaal è scorretto.
 

Caridi continua : "I palestinesi, dunque, hanno superato la rottura segnata dal colpo di mano di Hamas a Gaza, nel giugno del 2007?". Quello di Hamas sarebbe stato un 'colpo di mano'? Si è trattato di un colpo di Stato, semmai. Con tanto di repressione, tortura e incarcerazione e eliminazione fisica dei membri di Fatah a Gaza. Ma Caridi non specifica questi elementi, come mai?
"
Nonostante l’enfasi dei toni, quello che è stato raggiunto nell’incontro di ieri è solo l’accordo sulla data delle elezioni politiche: maggio 2012. Per il resto, ci sono molte buone intenzioni". Dall'incontro, in definitiva, non è emerso nulla di nuovo. Tante 'buone intenzioni', come quella della data delle elezioni che dovrebbero tenersi a maggio 2012. Sono anni che il mandato di Mahmoud Abbas è scaduto e sono anni che lo stesso promette (senza mai mantenere) elezioni. Per quale motivo la data maggio 2012 dovrebbe essere credibile?
 

Caridi continua specificando altre 'buone intenzioni' : "Sulla sicurezza, sul rilascio dei militanti detenuti da entrambe le fazioni. E soprattutto sulla riforma dell’Olp, di cui Hamas non fa parte, e che è invece uno dei nodi cruciali. ". Come scrive Caridi stessa, Hamas non fa parte dell'Olp. Per quale motivo una sua ipotetica riforma dovrebbe interessare ai fini dell'accordo Hamas/Fatah?
Caridi continua : "
Grandi parole e pochi fatti? Può darsi ". Cosa può darsi? Caridi non lo specifica, probabilmente non è chiaro nemmeno a lei.
"
La Siria, che ospita l’ufficio politico di Hamas e lo stesso Meshaal, è nel pieno della tempesta. Tanto da far alimentare le voci che parlano di un trasloco imminente per la leadership islamista". Forse Caridi era distratta, ma sono mesi che Meshaal ha annunciato . Che cosa faceva Caridi mentre i media internazionali riportavano la notizia?
"
Il riconoscimento dello Stato di Palestina è in stallo, all’Onu. ". No, il riconoscimento dello Stato palestinese non è in 'stallo', è semplicemente fallito.
"
E le casse dell’Anp sono vuote o quasi, ha detto sempre ieri il premier di Ramallah Salam Fayyad, perché Israele ha bloccato il trasferimento delle imposte palestinesi che per gli accordi di Oslo raccoglie e poi versa ai legittimi destinatari". 

Israele ha bloccato momentaneamente i fondi che raccoglie per l'Anp. Ma Caridi non specifica il motivo, in questo modo il lettore può solo dedurre che Israele s'è inventato un nuovo modo di opprimere i 'poveri palestinesi' vittime. Sul fatto che il provvedimento abbia a che vedere con l'adesione della Palestina all'Unesco e che si tratti di una risposta alle iniziative unilaterali prese dall'Anp contro i negoziati, nemmeno una parola.
Caridi conclude così l'articolo: "
Il riavvicinamento tra le due fazioni palestinesi è stato accolto con gelo dal premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha espresso la speranza che Abu Mazen «fermi il processo di riconciliazione con Hamas».".

La posizione israeliana sull'accordo Hamas/Fatah ridotta a poche parole tolte dal loro contesto. Nessuna spiegazione sul perchè Israele tema l'accordo di Fatah con Hamas. Un altro sistema per disinformare su Israele, la cosa che riesce meglio a Paola Caridi.
invitiamo i lettori di IC a scrivere al direttore della STAMPA Mario Calabresi per chiedergli un'opinione circa la disinformazione che diffonde il suo quotidiano pubblicando i pezzi di Paola Caridi: direttore@lastampa.it


Abu Mazen e Khaled Meshaal si sono parlati ieri a quattr’occhi per quasi due ore. Un incontro delle grandi occasioni, a sei mesi da quando si erano visti l’ultima volta, sempre al Cairo, per firmare uno storico accordo di riconciliazione che doveva porre fine a quattro anni di scontri e recriminazioni tra Hamas e Fatah. «Non ci sono più differenze tra di noi», ha detto Abu Mazen alla fine di una lunga riunione di lavoro nel palazzo Al Andalus, nella capitale egiziana, a pochi chilometri dai fuochi di piazza Tahrir. Prima un faccia a faccia tra il presidente dell’Anp Abu Mazen e il leader di Hamas. E poi un meeting allargato, al quale erano presenti coloro che hanno in mano il dossier. Azzam el Ahmed, per Fatah, e il numero due di Hamas, lo stratega, Moussa Abu Marzouq. «Si è aperta una nuova pagina», ha detto Meshaal.

I palestinesi, dunque, hanno superato la rottura segnata dal colpo di mano di Hamas a Gaza, nel giugno del 2007? Nonostante l’enfasi dei toni, quello che è stato raggiunto nell’incontro di ieri è solo l’accordo sulla data delle elezioni politiche: maggio 2012. Per il resto, ci sono molte buone intenzioni. Sulla sicurezza, sul rilascio dei militanti detenuti da entrambe le fazioni. E soprattutto sulla riforma dell’Olp, di cui Hamas non fa parte, e che è invece uno dei nodi cruciali. Anche sul governo di unità nazionale l’intesa è, per il momento, politica, ma senza scendere nel dettaglio e indicare, per esempio, il nome del nuovo premier. L’appuntamento, già messo in agenda, è per la metà di dicembre, quando si parlerà proprio del nuovo esecutivo e di una rinnovata Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Grandi parole e pochi fatti? Può darsi. Attorno ad Abu Mazen e a Meshaal, però, tutto è cambiato. Un’intera regione. E un equilibrio che reggeva da decenni. «Sono senza i loro patron, Egitto e Siria. E dunque sono più deboli», commenta da Gerusalemme Mahdi Abdul Hadi, direttore del centro studi Passia e uno dei principali facilitatori della riconciliazione del maggio scorso. «Sono diventati partner perché sono più soli». Soli come i palestinesi non lo erano mai stati. L’Egitto, il patron di Fatah, è nel pieno di una rivoluzione incompiuta. E l’intelligence egiziana, mediatrice di tutti i tavoli negoziali, da Shalit sino a quello della riconciliazione, vive in una strana posizione. Media tra i palestinesi, ed è al tempo stesso parte in commedia in quello che succede al Cairo, nello scontro in corso per disegnare il nuovo potere. La Siria, che ospita l’ufficio politico di Hamas e lo stesso Meshaal, è nel pieno della tempesta. Tanto da far alimentare le voci che parlano di un trasloco imminente per la leadership islamista, che forse si dividerà tra Doha e il Cairo. Senza paesi sostenitori, soli, e fluttuanti nel periodo più confuso della storia recente palestinese. Il riconoscimento dello Stato di Palestina è in stallo, all’Onu. E le casse dell’Anp sono vuote o quasi, ha detto sempre ieri il premier di Ramallah Salam Fayyad, perché Israele ha bloccato il trasferimento delle imposte palestinesi che per gli accordi di Oslo raccoglie e poi versa ai legittimi destinatari. Il riavvicinamento tra le due fazioni palestinesi è stato accolto con gelo dal premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha espresso la speranza che Abu Mazen «fermi il processo di riconciliazione con Hamas».
venerdì 25 novembre 2011

Torna all'Italia la gestione della missione Unifil in Libano



http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=42388 


Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 24/11/2011, a pag. 20, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo "Libano, la missione Unifil nelle mani di un italiano".

Unifil                                           Hezbollah

L’Italia riprenderà il comando della missione Unifil in Libano, a partire da gennaio, e il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha completato la selezione dei candidati. Nei corridoi del Palazzo di Vetro danno per favorito il generale torinese Paolo Serra, che si troverà a gestire una situazione allo stesso tempo molto delicata, e di grande prestigio per il nostro Paese.

Unifil era stata istituita dal Consiglio di Sicurezza nel marzo del 1978, con le risoluzioni 425 e 426, ma aveva preso la sua configurazione attuale nell’agosto del 2006, alla fine del conflitto tra Israele ed Hezbollah nel sud del paese. Allora il mandato era stato ampliato per creare un cuscinetto nella zona meridionale del Libano, allo scopo di prevenire la ripresa del conflitto, e il contingente era salito da 2.000 a 12.300 uomini. L’Italia lo aveva già comandato dal 2 febbraio del 2007 al 28 gennaio del 2010, con il generale Claudio Graziano, che poi aveva passato le consegne al collega spagnolo Alberto Asarta Cuevas. In questa fase, però, la situazione si è complicata. Alcune leggerezze commesse da Cuevas sul piano del comportamento personale lo hanno esposto alle critiche, e forse in certi casi al ricatto, delle parti con cui doveva dialogare. Nel frattempo la tensione politica tra Israele ed Iran ha continuato a crescere, a causa del contrasto sul programma nucleare di Teheran, con le voci degli ultimi tempi che parlano con insistenza della possibilità di un intervento militare. Tutto questo, unito ai disordini in corso nei confini dell’alleato siriano, ha avuto un impatto su Hezbollah, e quindi sulla stabilità della zona cuscinetto con lo Stato ebraico che Unifil si trova a gestire.

Al momento la missione è composta da 12.304 uomini, di cui 1.686 italiani, 1.439 francesi, 1.356 indonesiani, 1.069 spagnoli, e circa novecento ghanesi e indiani. Roma, che è il primo fornitore occidentale di caschi blu e il sesto contributore al bilancio delle operazioni Onu di peacekeeping, aveva presentato una terna di candidati molto qualificati e con grande esperienza: il generale Paolo Serra, proveniente dagli Alpini; Flaviano Godio, che viene dalla Cavalleria; e Leonardo di Marco, in origine artigliere. Ban Ki-moon li ha intervistati il 15 novembre scorso e dovrebbe annunciare la sua scelta alla metà di dicembre, affinché il passaggi di consegne possa avvenire entro fine gennaio.

Serra ha comandato il battaglione degli Alpini «Susa», il Nono Reggimento con cui era stato in Kosovo, e la brigata Julia, con cui era andato in Afghanistan. In Libano troverà una situazione delicata, dove l’Italia tornerà al centro dell’attenzione della comunità internazionale, che ci ha chiesto di riprendere la guida di Unifil. Il suo compito sarà disinnescare le tensioni crescenti, in una zona del mondo che troppo spesso minaccia di trasformarsi in un teatro di guerra.
giovedì 24 novembre 2011

L'importanza di Tzahal e degli avamposti per la difesa di Israele



http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=8&sez=120&id=42373 


Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/11/2011, a pag. IV, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Il nido delle aquile di Israele".

Giulio Meotti


Una settimana fa, a Hebron, la città dei Patriarchi biblici, un soldato israeliano si è fatto prendere dall’agitazione e ha ucciso un famoso rabbino, scambiandolo per un terrorista. Due settimane prima, alcuni palestinesi hanno ucciso due coloni, i Palmer, padre e figlio di un anno. A marzo due terroristi hanno sterminato la famiglia Fogel a Itamar. La tensione nei Territori è alta. E’ iniziato il conto alla rovescia per “gli ultimi avamposti d’Israele”, gli insediamenti fatti di roulotte. Ci vivono circa quattromila coloni, una piccola parte degli oltre cinquecentomila che abitano in Cisgiordania, ma la più agguerrita e ideologizzata. Il governo Netanyahu deve evacuarli su ordine della Corte suprema, ma sta prendendo tempo, e molti ministri e deputati stanno cercando il modo per legalizzare gli avamposti. Sarebbe la più grande evacuazione da quando Ariel Sharon smantellò i villaggi ebraici di Gaza (Netanyahu si dimise pur di votare contro).
 

Il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ieri ha minacciato di far saltare la coalizione se saranno smantellati gli insediamenti. Le colonie sulle colline sono molto più problematiche di Gaza, perché sorgono nel cuore di quella che i religiosi chiamano coi nomi biblici “Giudea e Samaria”. Come Sa- Nur, avamposto evacuato da Sharon, costruito sui resti di una vecchia fortezza turca, trasformata in caserma dagli inglesi durante il Mandato, passata ai giordani e infine dal 1967 agli israeliani. Le colonie svettano in punti strategici per l’esercito, specie ora che Tsahal parla di rientrare a Gaza se i missili dovessero volare di nuovo sulle città della costa. I settlers pensavano che la grande ondata di terrorismo avesse finalmente convinto tutti a seguire la loro strada, quella della presenza sul territorio costi quel che costi. Dicono che non basterà la promessa di Netanyahu di uno stato palestinese demilitarizzato, perché non c’è garanzia che esso possa restare tale negli anni e appena Hamas correrà per le elezioni (forse a primavera) il terrore tornerà anche qui. Non c’è soltanto la Giordania, oltre questi avamposti.
 

Dietro ci sono l’Iraq, la Siria, l’Iran. Israele non può immaginare di avere missili palestinesi, forse iraniani, a cinquecento metri dall’aeroporto Ben Gurion, o da Gerusalemme. Haifa è già stata bombardate da Hezbollah, Ashdod da Hamas. Gli avamposti sono grandi occhi dentro Jenin e Nablus, le due città palestinesi da cui si sono diramati centinaia di attacchi terroristi suicidi. Le roulotte dominano anche la vista di Ramallah, in un paesaggio spoglio, su un’altura detta Artis. La bandiera del sionismo religioso, quella gialla con la scritta “Messia”, sventola alta sugli avamposti, che qualcuno chiama “il nido delle aquile d’Israele”. Altri li paragonano al castello libanese di Beaufort, costruito dai crociati e diventato un avamposto ebraico nella guerra contro Hezbollah per vent’anni.
 

La Corte suprema ha ordinato al governo di smantellare gli outpost – in ebraico “ma’achaz” – perché non sono mai stati legalizzati. Il vice primo ministro Moshe Ya’alon ha detto: “Smettiamo di chiamarli ‘avamposti illegali’, li abbiamo creati noi del governo”. Tra i residenti ci sono molti ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti con moglie e figli. Haaretz, il giornale della sinistra, parla di “decine di ufficiali dell’esercito che vivono negli outpost”. Presso Eli, dove un cecchino palestinese eliminò una a una dieci persone con un vecchio fucile, c’è la casa di Roi Klein, il comandante che durante la guerra del Libano si buttò su una granata per evitare che i suoi soldati fossero colpiti. Si va dal semplice container appoggiato in cima a una collina, tanto per conquistare una posizione, a qualche fascia di prefabbricati messi su un fianco. Sino a quelli che, man mano, si sono trasformati in insediamenti stabili, con i prefabbricati tipo “post terremoto” diventati casette dal tetto rosso. 

La terra su cui sorgono è “statale”, passata di mano in mano agli imperi che si sono succeduti, oppure è “abbandonata”, senza che se ne possa dimostrare la proprietà, oppure è acquistata dagli israeliani, come Havat Gilad. Alcuni invece sorgono su terra privata palestinese, e per questo la Corte suprema vuole evacuarli. L’esercito israeliano l’ha requisita per “ragioni di sicurezza” durante l’Intifada. Quando c’è tensione, lassù sulle colline, le comunicazioni si fanno difficili, la compagnia degli autobus sospende i collegamenti, nessuno si avventura sulle strade se non ha un fucile e se ci vai diventi spesso un bersaglio mobile per i cecchini. Vai al lavoro e sei sotto tiro, torni e sei sotto tiro e lo sei ancora anche quando arrivi al villaggio.
Un anno fa quattro israeliani, tra cui una donna incinta, sono stati uccisi sulla strada per un avamposto a Hebron. Le trincee dell’esercito, segnate da reti mimetiche a larghi fori, circondano il plateau che fronteggia Jenin senza nessuna protezione circostante. Si può sparare sulle case, sui bambini, sui passanti da ogni parte. Il ministro del Likud Yisrael Katz ha detto che “ritirarsi da qui vorrebbe dire esporre una larga parte della nostra popolazione al rischio di attacchi terroristici”. I governi che si sono succeduti negli anni hanno oscillato, generando confusione, fra il considerare quelle terre moneta di scambio per raggiungere un accordo con i palestinesi, o “terra liberata” che ha conferito al piccolo Israele sicurezza e memorie storiche. Dall’avamposto di Bruchin si vedono i grattacieli Azrieli di Tel Aviv. A destra, le ciminiere di Hadera. A sinistra, il porto di Ashdod.
 

Dall’avamposto si tiene in palmo di mano metà della costa israeliana. “Siamo la linea di difesa di Tel Aviv”, dicono i responsabili di questo pugno di case color giallo pastello appollaiate su un’altura non lontana da Nablus. A Buchrin si dice che “agli arabi bisogna garantire tutti i diritti, ma controllo militare e sovranità devono restare nelle nostre mani”. In nome della sicurezza dei 105 avamposti giudicati “illegali”, soltanto 34 sono stati costruiti sotto governi di destra, mentre ben 71 sotto i laburisti Yitzhak Rabin, Shimon Peres e soprattutto Ehud Barak. La sinistra militante parla di peccato originale dei padri fondatori socialisti. Ehud Sprinzak, politologo all’Università ebraica di Gerusalemme, ha scritto che “l’ex premier Golda Meir non nascondeva le sue simpatie per quei giovani crociati della causa sionista, pronti ad abbandonare le comodità di Tel Aviv in nome della redenzione dei luoghi santi ebraici, nei territori appena conquistati”. Prima del ritiro da Gaza nel 2005, l’argomento principale per smantellare le colonie era la sicurezza: “Israele non può impiegare dieci soldati per proteggere cinque famiglie”.
 

Poi Hamas ha preso il territorio e ne ha fatto una rampa di lancio per i missili e Israele oggi rimpiange la grande calma che regnava con le colonie. A Havat Gilad, l’outpost evacuato nel 2002, furono impiegati mille soldati per muovere mille coloni. Più tardi, quando fu evacuata Mitzpeh Yizhar, per 500 persone arrivarono mille soldati. Ci sono state botte e non si contarono i feriti, anche fra i deputati accorsi sul posto. Oltre al rischio di caos sociale, se Israele smantellasse gli avamposti sarebbe come se accettasse confini “de facto”. Per adesso i cittadini di questi insediamenti si sentono parte della linea di difesa di un popolo assediato ai bordi e tormentato dal terrore. Con la benedizione di Yigal Alon e poi di Yitzhak Rabin, hanno proseguito la strada di dolore che “fece fiorire il deserto” con le prime aliah. Poi i coloni religiosi diedero al movimento quel segno di redenzione della terra che è rimasto parte importante della vicenda degli insediamenti. Il caso di Migron è emblematico per capire come siano nati.
 

Nell’aprile 2002, in piena Intifada, le autorità militari montano un’antenna per telefoni cellulari in cima alla collina. Migron sorge sopra un’arteria stradale decisiva per la sicurezza nella regione. La collina è bellissima: a est si vede il mar Morto, a ovest Gerusalemme. E’ una specie di paesino arroccato in cima a una delle più alte colline della Samaria, tutto pace e tranquillità, cullata dal canto dei grilli e da una brezza dolce, con vista mozzafiato sulla costa di Israele a cielo sereno. I coloni chiedono il permesso di recintare l’antenna e costruire una garitta di guardia per impedire attacchi. Poi si passa alla richiesta di elettricità. L’Israel Electric Corporation e l’amministrazione civile danno il consenso. Poco dopo arrivano l’acqua e le fogne dal ministero dell’Edilizia. La funzione di sicurezza è presto spiegata: in caso di movimenti sospetti, gli abitanti avvertono l’esercito. Pinchas Wallerstein, uno dei più noti leader degli insediamenti, ha detto che “se sarà rimosso Migron, sarà l’inizio di un trend per rimuovere tutti gli ebrei dalla terra d’Israele”. Il colonnello Yitzhak Shadmi è uno dei portavoce dei coloni e abita a Neve Tzuf, in mezzo a una foresta della Samaria: “Migron è stato costruito dal governo e dall’esercito, prima hanno piantato antenne militari, poi una presenza militare, infine sono arrivati i civili”, dice al Foglio Shadmi.
 

“L’avamposto sorge su un’altura strategica per l’esercito. Quando ci sono civili, c’è anche l’esercito. Se non ci sono civili, non c’è bisogno dell’esercito. Fra Jenin e Gerusalemme c’è sempre stato tanto terrorismo, poi gli avamposti assieme all’esercito hanno reso la situazione più sicura, ma tutto può esplodere in un attimo. Ricordiamo quanto è stato facile lo scoppio della Seconda Intifada. L’esercito all’apparenza protegge i coloni, ma se l’esercito abbandona queste terre e colline, cosa accadrebbe nel caso di una guerra regionale fra Israele, Libano e Siria? Per creare questo stato di sicurezza nei Territori, Israele ci ha impiegato vent’anni. Inoltre, se non fossimo là su quelle colline, l’esercito non potrebbe mai giustificare la presenza in quel territorio. Il terrore da Gaza non c’era prima che ce ne andassimo. Oggi Hamas è in grado di colpire Tel Aviv. 

Le colonie sono la linea del fronte, come il nord della Galilea contro Hezbollah e le città del sud contro Hamas. Tutti i confini estremi d’Israele sono vitali per la sicurezza della costa”. Alcuni insediamenti sono vecchi, nascono vent’anni dopo la nascita di Israele. Taluni sorsero con intenti difensivi evidenti, altri – quelli dei religiosi – su ispirazione nazionalista, altri come colonie agricole sulla scia dei kibbutz e parecchi persino perché le case in quelle zone costano poco.
Ma la recente vicenda dell’Intifada li ha compattati tutti nella convinzione politica che sia un errore andarsene. 


Lo shabbach, i servizi segreti dell’Interno, ha detto preoccupato che alcuni elementi hanno cominciato ad agitarsi nella speranza di compiere qualche gesto di provocazione che mandi lo sgombero a gambe all’aria. La gente degli outpost vive lontano da tutto ciò che profuma di consumismo. E’ un nazionalismo pionieristico scevro da dubbi. Ragazzi nati e cresciuti nelle colonie più antiche, che hanno deciso di abbandonare il tetto paterno per andarsi a preparare il proprio nido in cima alle colline. Un container, un prefabbricato o una casetta costruita con le proprie mani. Si ritengono la “nuova avanguardia” dei coloni, pronta a difendere gli avamposti, soprattutto a sud di Gerusalemme, tra Betlemme e Hebron. Le ragazze hanno nomi magnifici, come Hodaya (in ebraico, Ringraziamento), Tikwa (Speranza) e Yeshua (Salvazione). I giovani sono studiosi della Bibbia con la kippa in testa e la mitraglietta Uzi in mano, l’indice sempre sul grilletto. “Netanyahu ha deciso che si deve costruire soltanto nelle colonie più grandi e sacrificare quelle piccole, ma non si fermeranno agli avamposti, smantelleranno anche le colonie grandi in un effetto domino per tutta la sicurezza d’Israele”, ci dice Hillel Weiss, decano degli studi di letteratura alla Bar Ilan University e mentore dell’ala più motivata dei settlers.
“Se l’esercito non può proteggersi, che lascino che i cittadini si difendano da soli, non abbandoneremo le nostre case come a Gaza. Oggi nei territori di Giudea e Samaria ci vivono 600 mila ebrei, lo stesso numero di quando fu fondato lo stato d’Israele nel 1948”.


Per questo Weiss, che è il curatore degli scritti del premio Nobel Shmuel Agnon, ha fondato l’Autorità ebraica, organismo di rappresentanza dei coloni. “Ci sono avamposti legali, come Havat Gilad, che esistono da quindici anni – continua Weiss – Ci sono avamposti costruiti in una notte dai giovani in reazione a uccisioni da parte di terroristi. Devi fare dieci chilometri in auto nel deserto per raggiungerli, alla fine del mondo. Sono case costruite con la pietra o il fango, dove si vive di agricoltura. Non hanno elettricità o acqua corrente, usano piccoli generatori per sostenersi. Ci sono avamposti più grandi, come Itamar, che ha sette colli come Roma. Sono esperimenti di grande successo per l’agricoltura biologica. Non è mai stata sottratta della terra ai palestinesi, prima era degli ottomani, poi degli inglesi, dei giordani e infine d’Israele. Soltanto una guerra più grande, come con l’Iran, potrà dissuadere lo stato dallo smantellare gli avamposti. E allora Israele sarà in pericolo, perché si innescherà un effetto a catena fino alla costa”. Ci sono molti americani in cima agli avamposti.
 

Dopo il 1967, sull’onda della Guerra dei sei giorni, ne giunsero più di ottomila. Un’immigrazione legata al sogno della “grande Israele”, religiosa. Soprattutto ragazzi e ragazze di Brooklyn, con una percezione dell’Olocausto e dell’antisemitismo rituale e ideologica, hanno combattuto l’assimilazione e deciso per un’aliah militante. Molti vivono a Migron, il primo nell’agenda di Ehud Barak per l’evacuazione. Ci si vive in un continuo stato di precarietà: arrivarci è spesso un problema da macchina blindata, mandar fuori i figli è un’impresa da batticuore, andare al cinema o a teatro a Gerusalemme significa attraversare di notte Ramallah. Le pietre volano, e anche le bombe molotov. Molti outpost portano il nome di cittadini israeliani uccisi dai terroristi, come Mitzpe Danny, Beit Haggai, Maale Rehavam, Aryeh, Yad Yair, Mitzpeh Shabo, Rachelim e Shevut Rachel. Quest’ultimo ha assunto il nome di una donna uccisa dopo la Conferenza di Madrid del 1991. 

Il marito, David Druck, ha detto: “Puoi spostare una casa, ma non una tomba. E’ la mia risposta ai terroristi”. E’ la logica di molti avamposti: loro uccidono, noi costruiamo. Un cartello recita: “Migron, la battaglia di tutti”.
Anche il presidente del Parlamento, Reuven Rivlin, ne ha chiesto la legalizzazione. Il futuro di questa piccola comunità di cinquanta famiglie va al di là del singolo caso. Riguarda il futuro della presenza israeliana nei Territori e lo scenario peggiore, ovvero che la violenza possa esplodere di nuovo nelle città più importanti e contro la quale gli avamposti furono creati. I cittadini di Migron mostrano documenti del ministero della Difesa che avviava un percorso di legalizzazione. Ma da allora hanno vissuto in un limbo. Come ha scritto il Jerusalem Post, se Migron cade seguiranno altri insediamenti; se resta in piedi la presenza ebraica in quelle terre incandescenti sarà assicurata per sempre. Ci dice il professor Hillel Weiss, che ha appena assunto anche la direzione del dipartimento di studi yiddish dell’Università Bar Ilan: “E’ una vergogna che il popolo d’Israele sia sopravvissuto a Hitler e che oggi distrugga i propri avamposti.
 

Lassù nelle colline ci vive il popolo ebraico migliore e più puro. La terra d’Israele è il patto fra Dio e il suo popolo, ma è anche un diritto sancito dalla comunità internazionale. Io vivo a Elkana, una colonia mainstream perché incuneata dentro alla barriera di sicurezza. I miei vicini, quasi tutti borghesi, si illudono che a loro andrà bene. Ma quando scoppierà la grande guerra, forse con l’Iran, non ci sarà differenza fra chi sta dentro o fuori il recinto”. Chiediamo a Weiss se pensa che ci sarà ancora lo stato ebraico per il centenario del 2048: “Io non so neppure se ci sarà domani”.

L'Italia appoggia le sanzioni all'Iran



http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=42377 

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 23/11/2011, a pag. 19, la breve dal titolo "Esordio del ministro Terzi su Twitter: l'Italia sostiene le sanzioni all'Iran". Dal FOGLIO, a pag. V, l'articolo dal titolo " Così Obama gestisce la quiete apparente di Israele contro l’Iran ".
Ecco i due pezzi, preceduti dal comunicato di Fiamma Nirenstein:

Fiamma Nirenstein - " Necessario sostenere le sanzioni contro il nucelare iraniano "

Fiamma Nirenstein

Dopo che l’Aiea ha verificato in maniera definitiva che il sentiero percorro dall’Iran è quello verso l’armamento nucleare è fondamentale una decisa reazione internazionale. E’ per questo che appare oltremodo appropriato che l’Italia - come dichiarato dal Ministro Giulio Terzi di Sant’Agata - sostenga la necessità di un serio regime di sanzioni sullo stile di quello preannunciato dal Segretario di Stato Americano Hillary Clinton.
Le sanzioni devono segnalare al governo di Teheran la consapevolezza del consesso internazionale sull’aggressività delle intenzioni iraniane, non hanno lo scopo di danneggiare la popolazione, ma quello di bloccare la classe dirigente iraniana da un progetto che più volte ha dimostrato il suo bellicoso antagonismo contro l’Occidentee e contro Isreale.
Sono dunque soddisfatta delle parole del ministro decisamente contrarie al nucleare iraniano e al terrorismo internazionale, l’unica strada in grado di difendere la pace mondiale.
www.fiammanirenstein.com


La REPUBBLICA - "Esordio del ministro Terzi su Twitter: l'Italia sostiene le sanzioni all'Iran"

Giulio Terzi di Sant'Agata


ROMA - «Bisogna impedire all´Iran di avere l´arma atomica. Ed è per questo che l´Italia sostiene il piano di sanzioni economiche annunciato dall´Amministrazione statunitense». Così ieri mattina il neo-ministro degli Esteri Giulio Terzi ha esordito su Twitter. Il ministro ha scritto anche di Egitto esprimendo la sua preoccupazione: «L´Italia rispetta il processo politico in atto ma non si deve prescindere dal rispetto dei diritti umani!».

Terzi è il primo membro dell´esecutivo Monti ad aver aperto un profilo su Twitter: tra le persone che ha deciso di seguire sul sito di microblogging ci sono solo due politici, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e l´ex ministro degli Esteri Franco Frattini.


Il FOGLIO - " Così Obama gestisce la quiete apparente di Israele contro l’Iran"

Barack Obama

Roma. “Col senno di poi, fu l’asettica quiete degli israeliani a confonderci”. Samuel Lewis, ambasciatore americano presso Israele dal 1977 al 1985, attribuisce alla segretezza di Menachem Begin la realizzazione dello strike a sorpresa con cui il 7 giugno del 1981 l’aviazione israeliana distrusse il reattore nucleare iracheno Osirak. Quel blitz è tornato sulle pagine dei giornali perché per molti Israele sta pensando a una missione simile per colpire i siti nucleari dell’Iran. Qualche settimana fa, complice il report dell’Aiea sull’avanzamento del programma atomico degli ayatollah, sembrava una questione di giorni, Israele era pronto, ma poi i fari dei media si sono spenti – esattamente come accadde nell’autunno del 1980 quando nel mirino c’era la Bomba di Saddam Hussein.

Il 30 settembre gli iraniani avevano danneggiato il sito a 25 chilometri da Baghdad e tra gli analisti si era diffusa la sensazione che il governo Begin avesse congelato i piani militari. Nel pomeriggio del 7 giugno, gli F16 di Tsahal misero fine alle ambizioni nucleari irachene. “In realtà non fui sorpreso dall’attacco – ricorda Lewis – Mi sentii infastidito: avevamo scambiato la calma degli israeliani per immobilità e ne pagavamo le conseguenze”. Le parole dell’ambasciatore suonano come un monito all’Amministrazione Obama, che pure ha deciso di tenere una linea dura contro l’Iran: è stata consegnata al Pentagono una commessa delle bombe più potenti al mondo per colpire i bunker (queste vanno più in profondità rispetto a quelle vendute a Israele); il presidente, Barack Obama, ha detto che tutte le opzioni sono sul tavolo, compresa quella militare; in concerto con Regno Unito e Canada, gli Stati Uniti hanno deciso una nuova – e pesante – tornata di sanzioni contro il regime di Teheran. Sulle intenzioni di Israele invece non si sa molto, e Lewis ripercorre il blitz di Osirak per cercare di ottenere indizi validi oggi.

Tra il 1977 e il 1980 i ministri degli Esteri, Moshe Dayan e Yitzhak Shamir, s’incontrarono più volte con l’ambasciatore americano e con il dipartimento di stato per realizzare un’azione concertata. Nel deserto del Negev fu realizzato un modello in scala del reattore iracheno su cui testare la potenza di fuoco dell’aviazione. “In quel periodo gli israeliani erano assai loquaci – ricorda Lewis – Begin provava a convincerci della soluzione militare e molti dei colloqui riservati finivano sui giornali. Ma nell’estate del 1980 avvertì l’Amministrazione Reagan dei pericoli connessi al bombardamento e sull’intero progetto cadde improvvisamente il silenzio”. Le comunicazioni con il Pentagono si interruppero e nell’ottobre del 1980 il Consiglio dei ministri israeliano conferì luce verde all’“Operazione Opera”. “Durante l’inverno l’intelligence stabilì che i danni inferti dall’esercito iraniano sarebbero stati riparati nel giro di poche settimane e, seppure conscio della ritrosia di Reagan, Begin optò per l’attacco”.

Quando i caccia israeliani passarono sullo spazio aereo giordano, Lewis fu costretto a spiegare al segretario di stato, Alexander Haig, il perché di un’analisi sbagliata. “Mai come allora rimpiansi di non aver dato l’allarme”. Per alcuni mesi le relazioni bilaterali si fecero gelide. La situazione tornò poi alla normalità, ma “l’Operazione Opera ci ha insegnato a non fidarci più della quiete di Gerusalemme”, ci dice Lewis. Obama ha incaricato i consiglieri per la Sicurezza nazionale di rimanere in costante contatto con i colleghi israeliani. E forse in uno di questi colloqui è stato deciso il possibile sabotaggio avvenuto lo scorso 12 novembre all’interno della base di Bidganeh, in Iran. Fonti americane riservate riferiscono al Foglio della possibilità che a provocare le esplosioni in cui ha perso la vita il generale Hassan Moghaddam possa essere stato un virus molto simile allo Stuxnet, che nel 2010 ha colpito la centrale di Natanz.

Non può essere un caso – fanno notare – che la testata del missile Sejil 2 sia deflagrata mentre Moghaddam ne stava illustrando le capacità balistiche con una simulazione realizzata al computer. La manomissione del sistema di controllo informatico potrebbe essere stata approvata anche dagli Stati Uniti.
mercoledì 23 novembre 2011

Egitto, da dittatura laica a teocrazia stile Iran. Altro che 'primavera'.



 http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=42357

Egitto, continuano le manifestazioni a Piazza Tahrir. Tutti i quotidiani italiani di oggi danno ampio rilievo alla notizia. Segnaliamo (ma non riportiamo) i commenti di Vittorio Emanuele Parsi (La Stampa), Franco Venturini (Corriere della Sera), l'analisi non firmata sulla prima pagina del Foglio.
Riportiamo da LIBERO di oggi, 22/11/2011, a pag. 16, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Governo in fuga e 40 morti. Ma che primavera d’Egitto... ". Dal GIORNALE, a pag. 15, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Basta balle sulla Primavera. Più che rivolta fu vero golpe ". Dalla STAMPA, a pag. 15, l'intervista di Maurizio Molinari a  Robert Springborg, ex direttore dell’American Research Center del Cairo, dal titolo " Le forze armate devono cedere o saranno travolte ". Dal MANIFESTO, a pag. 2, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo " L’esito della seconda rivoluzione egiziana è nelle mani dei Fratelli musulmani ", preceduto dal nostro commento.
 

Ecco i pezzi:
LIBERO - Carlo Panella : "  Governo in fuga e 40 morti. Ma che primavera d’Egitto..."

Carlo Panella


Come Mubarak, peggio di Mubarak: i generali egiziani hanno deciso di dare un messaggio di sangue alla vigilia delle elezioni del 28 novembre e da tre giorni martellano di cariche e proiettili i manifestanti di piazza Tahrir. Il bilancio è terribile, con 40 morti e quasi 2.000 feriti, tanto che gli ospedali emettono comunicati disperati in cui avvisano di non disporre più di sangue per le trasfusioni. I fatti: 35 partiti politici egiziani venerdì scorso hanno organizzato una manifestazione a piazza Tahrir per chiedere la liberazione delle centinaia di prigionieri politici e per contestare il progetto del feldmarsciallo Hussein Tantawi - il nuovo raìs, capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate che governa il paese - di introdurre norme nella Costituzione che assegnino ai generali un potere politico insindacabile e superiore a quello del Parlamento e del governo. 

La manifestazione non era oceanica, circa 50.000 i convenuti, ed era caratterizzata da una netta predominanza dei partiti islamisti, a iniziare dal Partito Libertà e Giustizia (braccio politico dei Fratelli Musulmani), con una presenza minoritaria dei movimenti laici (ma erano presenti anche i copti del movimento Maspero). In piazza si è visto di tutto, compreso l’islamista Abdel el Zummor, che era stato condannato a 30 anni di carcere per l’assassinio del presidente Sadat e persino Abu Omar (l’imam della extraordinary rendition della Cia a Milano), tanto che su cinque palchi, quattro erano monopolizzati dagli islamisti. Sabato pomeriggio e poi con furore domenica e ieri, le forze speciali hanno però iniziato a effettuare cariche, a sparare sulla folla e a fare strage, per poi ritirarsi dopo una decina di minuti, come testimonia l’invia - to del Foglio Daniele Raineri, uno dei pochi giornalisti occidentali sul posto. Una strategia mirata non a sgomberare piazza Tharir, ma a massacrare i manifestanti, col chiaro intento di “dare una lezione”, di provocare (questo il senso dell’arresto di Bouthaina Kamel, l’unica donna candidata alle elezioni presidenziali), col risultato che gli incidenti si sono protratti per giorni, si sono estesi alle strade vicine e si sono spostati davanti alla sede del ministero degli Interni. Una strategia micidiale, alla deliberata ricerca della strage, che ha spinto prima Emad Abu Ghazi, il ministro della Cultura (ex marito di Bouthaina Kamel) alle dimissioni per protesta, e poi l’intero governo diretto da Essam Sharaf a rimettere il mandato nelle mani del Consiglio militare. 

Cosa già avvenuta il 10 settembre scorso, in occasione dell’attacco all’ambasciata israeliana, ma all’epoca il Consiglio aveva rifiutato di accogliere le dimissioni. In un primo momento ieri era circolata la notizia che il governo fosse caduto definitivamente, salvo poi essere smentita dalla tv pubblica. 

Nessuna decisione sarebbe stata ancora presa dai militari quindi. Incidenti gravi si sono avuti anche ad Alessandria e a Suez. Sul piano politico questa strage mette definitivamente in luce le caratteristiche del quadro politico egiziano e smentisce le illazioni circa lo spazio egemonico che islamisti e Fratelli Musulmani avrebbero consolidato nel post Mubarak. La realtà è che il movimento dello scorso febbraio era tanto imponente quanto completamente privo di direzione politica, di capacità di sostituire con una nuova leadership gli uomini del regime. I generali, a iniziare dal Ministro della Difesa Hussein Tantawi e con la complicità di Omar Suleiman, il braccio destro di Mubarak (oggi suo accusatore cinico e spietato), hanno allora portato a termine una operazione “stile Ceausescu”. L’intero quadro di comando militare (ma solo militare) del regime ha defenestrato Mubarak e i suoi ministri, scaricando solo su di loro tutte le colpe. Non per transitare il paese alla democrazia, ma per creare un nuovo regime. Intanto per oggi è convocata al Cairo una manifestazione per chiedere le dimissioni della giunta militare. Si prevedono scontri ancora più terribili.

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Basta balle sulla Primavera. Più che rivolta fu vero golpe "

Gian Micalessin

C’era una volta la rivoluzione. E i suoi cantori. Uno dei primi e più stonati fu Nichi Vendola. L’11 febbraio scorso, elettrizzato dal golpe dei militari e dalla detronizzazione di Hosni Mubarak, si lanciò in un’incontenibile elegia. «È un momento di condivisione della gioia del popolo egiziano. Diciassette giorni e tan­to sangue versato sono il prezzo di un cambiamento epocale.... cadono le te­ste dei tiranni e il Mediterraneo torna ad essere crocevia della speranza» senten­ziò il Nichi di Bari censurando «la volga­rità della classe dirigente italiana, inca­pace di esprimere anche una sola parola di solidarietà».

Nove mesi dopo eccoci qua. Mentre la piazza torna a ribellarsi i militari mostra­no il loro vero volto. Non quello di salva­tori della patria, come credeva Nichi Vendola, ma di grande casta pronta a «cambiare tutto per non cambiare nul­la ».Pronta a sacrificare con l’aiuto e la s­o­lidarietà di Barak Obama l’ingombrante Hosni Mubarak per sostituirvi il potere opaco e invisibile dei propri generali. Ma il Nichi nazionale è buona compa­gnia. Alla grande illusione della prima­vera araba ha contribuito tutta la sini­stra. Dai suoi leader ai suoi militanti, fi­no ai suoi profeti nazionali e internazio­nali. Basta ricordare il sorridente Pier Luigi Bersani che lo scorso luglio stringe la mano ai campeggiatori di Piazza Tahrir. Oppure Sean Penn volto simbo­lo del movimento progressista interna­zionale volato anche lui il 30 settembre nella stessa piazza per ricordarci che «tutto il mondo deve trarre ispirazione dalla richiesta di libertà e coraggio del­l’Egitto ».


Invito preceduto il 24 agosto da un articolo sull’Espresso di Massimo Cacciari in cui si vaticina per l’Italia non un governo dei professori, ma una rivo­luzione in stile egiziano. «Ricercatori, laureati, nuove professioni, free lance: milioni di giovani sono oggi da noi, e non solo in Italia, fuori da caste e palazzi. C’è da credere o temere che la loro pa­zienza sia ai limiti, come lo era quella dei loro colleghi maghrebini e egiziani. Co­me i loro colleghi d’oltre mare, si ricono­sceranno e si convocheranno attraverso le loro reti, le loro strade immateriali». Purtroppo d’immateriale in Egitto c’è so­lo la rivoluzione. Per capirlo bastava squarciare il velo di banalità regalatoci da chi celebrava una rivolta cresciuta sulle ali di internet e Faceboock. Quella rivolta era solo l’illusione di sparuti grop­puscoli di liberali e democratici divisi e numericamente inconsistenti. Groppu­scoli gu­idati da personaggi ancor più irri­levanti a livello di consenso popolare co­me l’ex presidente dell’Aiea Moham­med El Baradei o Amr Moussa, un ex mi­nistro protagoniste di troppe foto ricor­do al fianco di Hosni Mubarak, Ben Ali e Muhammar Gheddafi. Eppure le anime belle della nostra sinistra continuavano ad attribuire a quel marasma diviso e in­coerente la capacità di regalare all’Egit­to democrazia e progresso. E con la stes­sa spocchia liquidavano come fole isla­mofobiche i suggerimenti di chi avverti­va che dietro l’esile punta di lancia libe­ral­e si muoveva il ben più coeso e inqua­drato movimento dei Fratelli Musulma­ni.

I generali egiziani possono ora ringra­ziare l­a miopia di tutte queste anime bel-ledellasinistra occidentale. Grazieachi s’illudeva che il loro non fosse un golpe, ma un semplice calar di brache, hanno avuto 9 mesi di tempo per giocare impu­nemente tutte le loro cartucce. Prima hanno civettato con i Fratelli Musulma­ni illudendoli di voler spartire con loro, unica grande forza concorrente, il pote­re. Poi quando i salafiti lasciati liberi di agire dai servizi di sicurezza hanno inco­minciato ad attaccare i quartieri cristia­ni e inneggiare alla sharia hanno allun­gato una mano ai terrorizzati leader dei groppuscoli liberali. E approfittando delle loro paure hanno patteggiato un accordo sulla costituzione capace di pre­servare la tradizionale egemonia del­l’esercito sulla politica. E così mentre la grande scena progressista internaziona­le co­ntinua a cullarsi nel mito della rivol­ta liberale, dei militari buoni e dei musul­mani moderati la scena egiziana mostra la sua autentica immagine. Quello di una spietata lotta per il potere dove le ele­zioni, se mai si faranno, saranno solo un intermezzo verso il sanguinoso regola­mento di conti finale tra i fratelli musul­mani e i generali. Quello di un paese tra­sformatosi dopo la caduta di Hosni Mu­b­arak in un campo di battaglia su cui nes­suno è più in grado né d’imporsi, né di
governare.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Le forze armate devono cedere o saranno travolte "

Maurizio Molinari, Robert Springborg

La gente è scesa in piazza in Egitto perché i generali vogliono ipotecare la transizione democratica»: a sostenerlo è l’arabista Robert Springborg, ex direttore dell’American Research Center del Cairo oggi docente alla scuola internazionale della Us Navy a Monterey in California.

Quale è la genesi dei gravi scontri in corso a Piazza Tahrir?

«La violenza nasce dal fatto che gente sta protestando contro i militari perché i generali che lo governano dalla caduta di Mubarak tentano di porre dei precisi limiti alla transizione verso un sistema democratico basato sulla volontà popolare».

Di quali limiti si tratta?

«I generali sono al potere in Egitto dal 1952 e sanno che al termine della transizione in corso dovranno cederlo per la prima volta ai civili. Per questo tentano adesso di imporre condizioni ovvero di ottenere la garanzia che il controllo dell’esercito, del bilancio militare e delle scelte sulle questioni inerenti alla sicurezza nazionale resteranno nelle saldamente loro mani».

Quali sono state le conseguenze di tale richiesta?

«Ha fatto saltare l’intesa di facciata fra militari e islamisti frutto della caduta di Hosni Mubarak. I Fratelli musulmani non vogliono dare tali assicurazioni ai militari e sono stati i primi a iniziare le proteste, a cui adesso si stanno unendo anche le componenti più laiche della società egiziana».

Quanto è forte l’intesa fra le due anime della protesta?

«Gli errori commessi dai generali sono riusciti a unificare islamici e laici perché le diverse forze politiche hanno in comune la volontà di andare alle urne al più presto, votare ed eleggere chi governerà il Paese nei prossimi anni».

Come finirà il braccio di ferro a Piazza Tahrir?

«I generali dovranno fare un passo indietro perché sanno bene che se la transizione democratica dovesse fallire sarebbero loro i primi a essere travolti dalle manifestazioni popolari. L’unica garanzia di sopravvivenza che i militari hanno è legata al successo della transizione che inizierà la prossima settimana con la prima fase delle elezioni per il nuovo Parlamento nazionale. Se dunque dovessero decidere di andare allo scontro con la piazza potrebbero avere una vittoria di breve durata perché in poche settimane diventerebbero l’obiettivo delle stesso tipo di manifestazioni che travolsero il regime di Hosni Mubarak».

Ciò significa che i militari devono rinunciare a conservare il controllo dell’esercito?

«È un esito inevitabile. I generali hanno solo due scenari davanti: essere parte integrante della transizione verso una democrazia compiuta, subendo il conseguente ridimensionamento della loro influenza politica, oppure venirne letteralmente spazzati via, aprendo il campo a un Egitto dominato dai Fratelli musulmani, dagli islamici».

Il MANIFESTO - Michele Giorgio : " L’esito della seconda rivoluzione egiziana è nelle mani dei Fratelli musulmani "

Michele Giorgio           Fratelli Musulmani

L'articolo di Michele Giorgio ha il pregio di essere l'unico a specificare in maniera chiara e lineare che, scappati i militari, in Egitto arriveranno gli islamisti. Ma l'evoluzione islamista dell'Egitto viene definita 'la chiave del successo' della rivoluzione egiziana. Niente di più diverso dal vero. Gli egiziani, con i Fratelli Musulmani, passeranno dalla padella alla brace. Da una dittatura laica a una teocrazia stile Iran. Non è proprio possibile definire 'successo' questa metamorfosi, nè leggerla in chiave 'democratica'.
D'altra parte questa è la linea del comunista MANIFESTO, dimentico persino di quella che definivano ideologia 'laica'. oggi trasformata in teocrazia. Che fine !
Ecco il pezzo:


È nelle mani dei Fratelli musulmani, e delle altre formazioni islamiste, la chiave del successo di una possibile «seconda rivoluzione» egiziana, volta a portare a compimento la prima, del 25 gennaio, contro Hosni Mubarak e far cadere il regime, oggi rappresentato dall’alleanza tra il Consiglio supremo delle Forze Armate e l’establishment economico che tiene strette nelle sue mani le redini del Paese. I Fm- che i sondaggi indicano come il partito di maggioranza relativa che uscirà dalle elezioni che cominciano il 28 novembre (se confermate) - hanno annunciato che parteciperanno oggi pomeriggio alla «marcia del milione » alla quale aderiscono decine di forze politiche e dimovimenti di ogni colore.Ma quale sarà il loro atteggiamento verso il Consiglio Supremo delle Forze Armate (Csfa) resta l’interrogativo che si pongono in tanti.

Si uniranno concretamente alla testuggine che stanno mettendo insieme tante anime della rivoluzione del 25 gennaio per scardinare l’intransigenza dei generali del Csfa? Sceglieranno senza ambiguità la piazza per impedire ai militari di ritagliarsi, anche a costo di tante vite umane, il potere di ultima parola nell’Egitto che attende un nuovo Parlamento, un nuovo Presidente e una nuova Costituzione? Già durante la rivoluzione del 25 gennaio i Fratelli musulmani mantennero per diversi giorni un atteggiamento prudente, ai limiti dell’ambiguità, nei confronti della rivolta che cresceva in piazza Tahrir. Alla ricerca della legalizzazione da parte delle autorità, furono tra quelle formazioni che accettarono di dialogare con il vice presidente Omar Suleiman, incaricato da Mubarak di avviare colloqui con quell’«opposizione decorativa» che di fatto gli reggeva il gioco da anni. Poi, spinti dai loro giovani, dalla loro base, i leader del principale movimento islamista egiziano non poterono fare a meno di aderire pienamente alla rivolta che l’11 febbraio costrinseMubarak a lasciare il potere e il Cairo.

Oggi la presenza massiccia, compatta di centinaia dimigliaia di attivisti e simpatizzanti dei Fm darebbe il colpo del ko ai militari che in questi mesi hanno fatto spesso affidamento proprio sugli islamisti per mantenere la pace sociale e frustrare le ambizioni di reale cambiamento dei rivoluzionari laici.Ma pochi credono che i Fmsi spingano fino a tanto. «È difficile che gli islamisti più moderati scelgano la strada del confronto aperto con i militari che li hanno aiutati non poco», spiega Hani Shukrallah, direttore del sito online del quotidiano al Ahram. La guida Mohammed Badei e i dirigenti dei Fm egiziani valutano varie opzioni. Da un lato sarebbero avvantaggiati, e non poco, da un rapido passaggio dei poteri ai civili e dal ritiro dei «principi sovra-costituzionali». I generali dello Csfa infatti vogliono darsi il diritto di ultima parola e la facoltà di respingere gli articoli della nuova costituzione qualora fossero in contraddizione con la carta da loro emanata lo scorso marzo.Dall’altro lato una seconda rivoluzione finirebbe per allontanare la conquista del potere politico che i Fm vedono a portata di mano, subito dopo le elezioni. 

Se, assiemealle altre forze islamiste, riusciranno a conquistare la maggioranza della nuova Assemblea del popolo (Camera bassa), i Fratelli musulmani potranno scrivere la nuova Costituzione con articoli più aderenti ai principi religiosi. Sarebbe un traguardo eccezionale se si pensa che appena un anno fa, gli islamisti egiziani erano persequitati, tenuti sotto pressione e privati del diritto di partecipare alle elezioni con un loro partito. Ecco perché Mohamed Badei esita a dare pieno appoggio a chi, anche nella base del suo movimento, chiede, come a gennaio, «la caduta del regime». Ai Fratelli appare più allettante, e meno rischiosa, la richiesta, comune a gran parte delle forze politiche, della formazione immediata di un governo di salvezza nazionale per gestire la fase di transizione. Troppa cautela potrebbe però esporre Badei alle critiche dei leader salafiti più radicali, che accusano la Fratellanza di guardare troppo al conseguimento di traguardi politici immediati e troppo poco a una sollevazione popolare che, nei loro disegni, dovrebbe fare dell’Egitto un vero paese islamico.

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Ho 27 anni, mi piaciono le culture straniere, in particolare quelle del Giappone e dell'est europa. Non mi piaciono gli antisemiti e i razzisti in generale, ecco perchè questo blog. E-mail per segnalazioni : mclcx2002@yahoo.it
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